

«Bus, una legge vieta di assumere stranieri»
L’allarme parte da Milano: mancano autisti, un decreto regio del ’31 ci lega le mani
MILANO - Ci sono gli operai a crescita zero. Sono i conducenti di tram, autobus, filobus e metrò. A Milano non ne trovano più. I concorsi vanno deserti. Sei bandi a vuoto, nell’ultimo anno. Li hanno cercati al Sud, tra i disoccupati di Napoli. Anche loro hanno dato forfeit. Gli offrivano l’alloggio gratis, in attesa del posto fisso. Niente: mille euro al mese non convincono più nessun italiano. Ci sarebbero gli extracomunitari. Quelli in regola, con i titoli e la patente. Ma all’Atm, azienda tranviaria milanese, non passa lo straniero. Un Regio decreto ne vieta l’assunzione, dal 1931. Gli stranieri, in tutte le aziende tranviarie del Paese, se non hanno la cittadinanza italiana, sono abili ma inarruolabili.
L’ultimo paradosso di un Paese senza manodopera è un caso che nessuno vuole affrontare. «Latitano un po’ tutti» dice l’assessore al lavoro del Comune di Milano, Carlo Magri. Sindacati, imprenditori e Parlamento non hanno mai pensato di modificare questa disposizione protezionistica per i dipendenti pubblici dell’Italia in camicia nera. In passato una ragione forse c’era: essere tranviere a Milano faceva status, ai concorsi c’era la ressa, per guidare un tram ci voleva la raccomandazione. «Oggi la situazione è davanti agli occhi di tutti: abbiamo bisogno di stranieri per fare quello che gli italiani non fanno più. È anacronistico e assurdo che un decreto di sua maestà Vittorio Emanuele III condizioni ancora il mercato del lavoro e vieti l’integrazione, dove questa è possibile» spiega Magri.
Il fatto di essere assessore in una giunta di centrodestra non condiziona le ragioni «di una giusta richiesta». Magri non teme le accuse della Lega, i contraccolpi in An e Forza Italia. «Bisogna eliminare un cavillo burocratico che ci allontana dall’Europa» dice. Parigi, Berlino, New York affidano autobus e metropolitane a polacchi, ghanesi, svizzeri o pechinesi. Perché in Italia siamo fermi al 1931? «È incredibile, tanto assurdo da sembrare inverosimile» si sorprende don Virginio Colmegna, responsabile della Caritas. E gli viene da dire: «Perché nessuno l’ha denunciato prima?».
I silenzi, in questa storia degli stranieri che non possono lavorare in Atm, sono quasi imbarazzati. Siamo in campagna elettorale, i politici temono di restare scottati. Gli autoferrotranvieri sono l’unica categoria del Paese che sfugge alla regolamentazione della legge 300: al posto dello Statuto dei lavoratori, c’è il Regio decreto dell’8 giugno 1931, numero 148, comma 1, articolo 10. Recita così: «Per l’ammissione al servizio in prova è necessario essere cittadino italiano o di altre regioni italiane quando anche il richiedente manchi della naturalità». Per coprire i turni del servizio a Milano, l’Atm è costretta a due milioni di ore di straordinario, pari al 30 per cento del monte ore complessivo, il triplo della quota fisiologica di un’azienda qualsiasi. Se si volesse riportare la situazione alla normalità bisognerebbe procedere come minimo a 600 nuove assunzioni. Ma queste sono diventate impossibili.
All’Atm spa i dipendenti sono 8.558, dirigenti esclusi. Nel 2005 ci sono state 327 assunzioni e 257 licenziamenti. Ma se si tiene conto che 58 dei nuovi assunti sono ausiliari della sosta, dunque personale non direttamente impegnato sui mezzi di trasporto, si va praticamente in pari. Nel 2004 è andata peggio, e il saldo degli esoneri è stato addirittura negativo: meno 47. L’Atm cerca da tempo una via d’uscita all’imbuto delle assunzioni che taglia fuori i cittadini extraeuropei. La questione però è sempre rimasta interna. Qualcuno ha anche pensato di coinvolgere il presidente della Repubblica Ciampi, il primo a dire che le aziende italiane hanno bisogno di stranieri. Poi ci ha ripensato. È l’assessore Magri, il primo a uscire allo scoperto. Parliamone, senza strumentalizzazioni, è il suo invito ai sindacati. Ma la questione non può essere risolta a livello locale. «E’ una questione nazionale» taglia corto il segretario della Camera del lavoro Giorgio Roilo.
La via maestra sarebbe il Parlamento: potrebbe modificare la legge in tempi rapidi, come fece con i ferrovieri nell’85, l’anno della privatizzazione delle Fs. In attesa di un segnale da Roma, il presente continua a coincidere con il passato e i concorsi rimangono tabù per un esercito di aspiranti lavoratori stranieri: tutti abili, tutti inarruolabili