Gualberto Niemen ed i suoi burattini..... una bella storia
Moderatori: lampo, quilla, Emi, Parsifal
Gualberto Niemen ed i suoi burattini..... una bella storia
Posto, per condividere con voi, una scoperta fatta in maniera casuale a Biandronno, durante la manifestazione che l’Associazione Amici di Boarezzo ha fatto lo scorso maggio. Si era ospiti a villa Borghi ed il piano terra era lo spazio per l’allestimento della mostra filatelica sui fiori, quando, incuriosito da un leggero transennamento, l’ ho scavalcato per salirvi le scale che portano al piano superiore; una porta leggermente accostata era un viatico troppo invitante da lasciarsi così; ho aperto ed ho strabuzzato gli occhi: mi sono trovato in un'altra storia: in quel locale erano collocati 4/5 burattini di legno di importanti dimensioni con alle spalle una bella scenografia; ho riconosciuto alcuni noti visi di alcune nostre maschere, ma soprattutto le irregolarità delle fattezze lasciavano intendere una grande mano artigianale. Mi sono addentrato nelle altre stanze e… scenografie diverse facevano da contorno ad altri burattini: uno spettacolo. A quel punto, la curiosità di conoscere ed approfondire il perché di tutto ciò, mi ha portato ad imbattermi in una delle pagine più belle del nostro Paese, fatto di alto artigianato, di grande passione, di una vita avventurosa, ma ricca di grandi soddisfazioni del più grande burattinaio d‘Italia: Gualberto Niemen.
Di seguito, posto alcuni contributi tratti dal sito del comune di Biandronno ed in coda alcuni miei scatti fotografici dei burattini: buona lettura.
Peppo
C’era in quel suo sguardo intensamente affettivo una dimensione coinvolgente che andava al di là del semplice gesto di prendere in mano un pezzo di legno. Quando Gualberto Niemen faceva vivere i suoi burattini, ci si rendeva conto di cosa fosse l’empatia e di come un oggetto avesse un’anima. Non era Testafina o Gianduja (i burattini che ha voluto con sé nella tomba) un essere inanimato che lui muoveva in un inchino o nell’atto di mostrare gioia: era una sua creazione, una sua appendice a cui aveva dato il soffio vitale. Quando negli ultimi anni raccontava la sua esistenza di burattinaio (e che esistenza ricca, da maestro, da artista completo!) con una tenerezza infinita, quella che una mamma ha nei confronti del suo bambino, guardava le sue creature, compagne di una vita, e spesso diceva quanto fosse importante per lui la loro presenza: nei momenti di solitudine li metteva sul divano e parlava con loro. Per anni è stato un rituale incontrarlo per strada con il suo bastone bianco, il suo incedere non più sicuro ed ascoltare le storie della sua esistenza così singolare e intensa. Ha lavorato fino a pochi anni fa. Vedeva poco, ma riusciva lo stesso a creare. Con gli occhi dell’anima.
Di seguito, posto alcuni contributi tratti dal sito del comune di Biandronno ed in coda alcuni miei scatti fotografici dei burattini: buona lettura.
Peppo
C’era in quel suo sguardo intensamente affettivo una dimensione coinvolgente che andava al di là del semplice gesto di prendere in mano un pezzo di legno. Quando Gualberto Niemen faceva vivere i suoi burattini, ci si rendeva conto di cosa fosse l’empatia e di come un oggetto avesse un’anima. Non era Testafina o Gianduja (i burattini che ha voluto con sé nella tomba) un essere inanimato che lui muoveva in un inchino o nell’atto di mostrare gioia: era una sua creazione, una sua appendice a cui aveva dato il soffio vitale. Quando negli ultimi anni raccontava la sua esistenza di burattinaio (e che esistenza ricca, da maestro, da artista completo!) con una tenerezza infinita, quella che una mamma ha nei confronti del suo bambino, guardava le sue creature, compagne di una vita, e spesso diceva quanto fosse importante per lui la loro presenza: nei momenti di solitudine li metteva sul divano e parlava con loro. Per anni è stato un rituale incontrarlo per strada con il suo bastone bianco, il suo incedere non più sicuro ed ascoltare le storie della sua esistenza così singolare e intensa. Ha lavorato fino a pochi anni fa. Vedeva poco, ma riusciva lo stesso a creare. Con gli occhi dell’anima.
giuseppe cozzi
Di sicuro ci sarà sempre chi guarderà solo alla tecnica e si chiederà 'come', mentre altri di natura più curiosa si chiederanno 'perche'
Man Ray
Di sicuro ci sarà sempre chi guarderà solo alla tecnica e si chiederà 'come', mentre altri di natura più curiosa si chiederanno 'perche'
Man Ray
Re: Gualberto Niemen ed i suoi burattini..... una bella storia
L’arrivo a Biandronno
“Nel mese di febbraio 1936 faceva ancora molto freddo e nevicava ancora. Cominciai a lavorare con il mio teatrino nella pubblica piazza di Cazzago Brabbia, anche perché dovevo aiutare mio cognato e mia sorella Italia la quale era ancora in ospedale. Cercavo di fare commedie non più lunghe di un’ora per non far prendere troppo freddo alla gente che veniva a vedere i miei burattini abbastanza numerosa. Molti se lo ricordano ancora a distanza di 59 anni! Dopo Cazzago andammo a Gallarate, poi a Varano Borghi sulla bella piazza davanti alla chiesa, dove si lavorò bene per un paio di settimane… E finalmente in maggio sulla pubblica piazza a Biandronno. Conquistai subito tutto il paese con un gran successo! Sebbene fosse il tempo del fieno, la piazza era sempre piena di gente per vedere le mie commedie anche se erano stanchi perché lavoravano quasi tutti la terra fino a tarda sera. Quasi tutti avevano qualche mucca nella stalla da curare. Al tempo del grano la trebbiatrice stava in piazza settimane. Gianduja e Testafina divertivano tutti, tutti! Io e mia moglie facemmo subito molte amicizie a Biandronno: mia moglie con la Marietta Beverina, la Mariuccia Merlot, la Giulia ed altre; e io feci amicizia con l’Aldo Chiodetti, con il Carlo Lentà, con il Ricò Masciandra e i Revelli ed in modo speciale con l’Antonio Ganna e l’Emilio cieco. E quando si lasciò Biandronno per andare a lavorare in piazza a Gavirate, ci dispiacque molto molto! Poi ci spostammo a Sangiano, a Caravate – sempre sulla pubblica piazza – poi a Cittiglio su un terreno privato. Mi astengo dal dire che ovunque ottenevo successo e simpatia da tutto il pubblico. In verità, erano i miei figli diletti, Gianduja e Testafina e compagni, a gloriarsi di tanto successo! Eravamo a Laveno Mombello già da due settimane dopo il 20 settembre quando un furioso ciclone mi fece volare per aria baracca e burattini! I cancelletti di due metri per un metro volarono per aria come fossero stati di cartone. I cassoni dei burattini no, perché erano pesanti. La bufera per poco non rovesciò la carovana di mia sorella perché con paletti e corda la assicurammo affinché non accadesse il peggio. Passato il ciclone, raccolto quel poco che ci fu possibile recuperare, cercammo di metterci subito il cuore in pace per pensare sul da farsi. Riuniti in consiglio di famiglia, io feci subito questa proposta: “Sentite, miei cari, io vado a Biandronno a chiedere il regolare permesso in carta bollata al signor podestà di lasciarci lavorare in piazza come ginnasti una dozzina di giorni. Sono sicuro che i nostri spettacoli piaceranno molto perché siamo ancora tutti in gamba. Tranne la Cleme, mia moglie, siamo tutti veri figli d’arte circense. Io intanto vado da quei bravi amici falegnami a farmi costruire un teatrino più grande e più bello di tutti quelli che ho visto in Lombardia, in Piemonte, in Liguria, in Emilia Romagna, con fondali artistici, con un metro e dieci per quattro di palco, così possiamo cantare e fare un po’ di varietà come in un teatro vero”. Tutti approvarono e tre giorni dopo si cominciò subito a fare il primo spettacolo in piazza di fianco del municipio dove c’è la sala del consiglio e dove invece nel ’36 c’era l’asilo infantile. Forse a Biandronno non capitò mai di ridere così tanto grazie alle nostre scenette e con “Gambasecca”, mio cognato. Così le nostre amicizie aumentarono anche per la “Cirillina”, mia sorella. Cantava canzoni con l’accompagnamento della chitarra. Quando cantava canzoni durante le quali doveva gesticolare e ballare, l’accompagnava Gambasecca che era pur un buon chitarrista. Anche i salti mortali che sapevo ancora fare con molta agilità molti anziani se li ricordano: riuscivo senza pedana a saltare una fila di dodici sedie con il salto da rompicollo, chiamato così, perché se si sbagliava, era il collo che si rompeva. Poi ero una buona spalla per le entrate comiche. Tutto filava bene! Nel frattempo dal Rico Masciandra e dal Pepin Ravelli io mi ero già fatta costruire la nuova e bella baracca di dodici metri quadrati, ben robusta. Dipinsi artisticamente la facciata e le quinte, per cui tutti mi facevano i complimenti ed in modo speciale l’Aldo Chiodetti ed altri e poi quasi tutti. Invece dell’acetilene e carburo usai un bell’impianto di luce elettrica di grande effetto. E il 15 ottobre 1936 inaugurazione con il primo spettacolo “Il martirio di S. Agnese con Gianduja e Testafina schiavi romani”. Poi finale con il gran varietà: sul piccolo palcoscenico feci cantare anche due canzoni al povero Emilio cieco che fu felicissimo di sentirsi molto applaudito. E gli spettacoli con il bel teatrino continuarono fino ai primi di novembre. Ci eravamo fatti amici di quasi tutto Biandronno. Amiche di mia moglie, di mia sorella come la Livia Lucchini, e molti miei amici ci consigliarono di passare l’inverno qui in paese e ci trovarono questa casa rustica, dove ancora risiedo, dei fratelli Franzetti di cui aveva la procura Enrico Parola. Ma che faceva tutto era l’Assunta Franzetti. Erano quattro locali; solo uno a pianoterreno era occupato da una vecchietta, la “Maria Celi”. Così ci stabilimmo provvisoriamente io e mia moglie nella casa che divenne mia nel 1951. Invece mia sorella Italia si fermò con la sua carovana nel cortile dei Bernard, poi in seguito nella casa della Livia Lucchini. Il Varesotto ci piacque molto e ci affezionammo. I miei spettacoli piacevano tanto e gli amici erano molti! Decidemmo di rimanere per sempre a Biandronno. Nel 1937 io e la Cleme andammo a Rivalba di Valmacca dove avevamo casa, vendemmo quel poco che avevamo e facemmo portare la nostra residenza a Biandronno per rimanervi per sempre! Sono contento che a Biandronno ho fatto onore, perché quando giravo con il mio bel teatro e ritornavo una seconda volta nella stessa piazza correva la voce: “Ci sono ancora i burattini di Biandronno in piazza!”. Ed il successo era assicurato. E poi di me parlarono bene molti quotidiani con pagine complete: “La Prealpina”, “Il Corriere della Sera”, “Il resto del Carlino”, “Il Messaggero” e molti altri e ripetutamente… Ecco come, quando e perché sono finito a Biandronno per essere ancora per tutti Nonno Berto!
“Nel mese di febbraio 1936 faceva ancora molto freddo e nevicava ancora. Cominciai a lavorare con il mio teatrino nella pubblica piazza di Cazzago Brabbia, anche perché dovevo aiutare mio cognato e mia sorella Italia la quale era ancora in ospedale. Cercavo di fare commedie non più lunghe di un’ora per non far prendere troppo freddo alla gente che veniva a vedere i miei burattini abbastanza numerosa. Molti se lo ricordano ancora a distanza di 59 anni! Dopo Cazzago andammo a Gallarate, poi a Varano Borghi sulla bella piazza davanti alla chiesa, dove si lavorò bene per un paio di settimane… E finalmente in maggio sulla pubblica piazza a Biandronno. Conquistai subito tutto il paese con un gran successo! Sebbene fosse il tempo del fieno, la piazza era sempre piena di gente per vedere le mie commedie anche se erano stanchi perché lavoravano quasi tutti la terra fino a tarda sera. Quasi tutti avevano qualche mucca nella stalla da curare. Al tempo del grano la trebbiatrice stava in piazza settimane. Gianduja e Testafina divertivano tutti, tutti! Io e mia moglie facemmo subito molte amicizie a Biandronno: mia moglie con la Marietta Beverina, la Mariuccia Merlot, la Giulia ed altre; e io feci amicizia con l’Aldo Chiodetti, con il Carlo Lentà, con il Ricò Masciandra e i Revelli ed in modo speciale con l’Antonio Ganna e l’Emilio cieco. E quando si lasciò Biandronno per andare a lavorare in piazza a Gavirate, ci dispiacque molto molto! Poi ci spostammo a Sangiano, a Caravate – sempre sulla pubblica piazza – poi a Cittiglio su un terreno privato. Mi astengo dal dire che ovunque ottenevo successo e simpatia da tutto il pubblico. In verità, erano i miei figli diletti, Gianduja e Testafina e compagni, a gloriarsi di tanto successo! Eravamo a Laveno Mombello già da due settimane dopo il 20 settembre quando un furioso ciclone mi fece volare per aria baracca e burattini! I cancelletti di due metri per un metro volarono per aria come fossero stati di cartone. I cassoni dei burattini no, perché erano pesanti. La bufera per poco non rovesciò la carovana di mia sorella perché con paletti e corda la assicurammo affinché non accadesse il peggio. Passato il ciclone, raccolto quel poco che ci fu possibile recuperare, cercammo di metterci subito il cuore in pace per pensare sul da farsi. Riuniti in consiglio di famiglia, io feci subito questa proposta: “Sentite, miei cari, io vado a Biandronno a chiedere il regolare permesso in carta bollata al signor podestà di lasciarci lavorare in piazza come ginnasti una dozzina di giorni. Sono sicuro che i nostri spettacoli piaceranno molto perché siamo ancora tutti in gamba. Tranne la Cleme, mia moglie, siamo tutti veri figli d’arte circense. Io intanto vado da quei bravi amici falegnami a farmi costruire un teatrino più grande e più bello di tutti quelli che ho visto in Lombardia, in Piemonte, in Liguria, in Emilia Romagna, con fondali artistici, con un metro e dieci per quattro di palco, così possiamo cantare e fare un po’ di varietà come in un teatro vero”. Tutti approvarono e tre giorni dopo si cominciò subito a fare il primo spettacolo in piazza di fianco del municipio dove c’è la sala del consiglio e dove invece nel ’36 c’era l’asilo infantile. Forse a Biandronno non capitò mai di ridere così tanto grazie alle nostre scenette e con “Gambasecca”, mio cognato. Così le nostre amicizie aumentarono anche per la “Cirillina”, mia sorella. Cantava canzoni con l’accompagnamento della chitarra. Quando cantava canzoni durante le quali doveva gesticolare e ballare, l’accompagnava Gambasecca che era pur un buon chitarrista. Anche i salti mortali che sapevo ancora fare con molta agilità molti anziani se li ricordano: riuscivo senza pedana a saltare una fila di dodici sedie con il salto da rompicollo, chiamato così, perché se si sbagliava, era il collo che si rompeva. Poi ero una buona spalla per le entrate comiche. Tutto filava bene! Nel frattempo dal Rico Masciandra e dal Pepin Ravelli io mi ero già fatta costruire la nuova e bella baracca di dodici metri quadrati, ben robusta. Dipinsi artisticamente la facciata e le quinte, per cui tutti mi facevano i complimenti ed in modo speciale l’Aldo Chiodetti ed altri e poi quasi tutti. Invece dell’acetilene e carburo usai un bell’impianto di luce elettrica di grande effetto. E il 15 ottobre 1936 inaugurazione con il primo spettacolo “Il martirio di S. Agnese con Gianduja e Testafina schiavi romani”. Poi finale con il gran varietà: sul piccolo palcoscenico feci cantare anche due canzoni al povero Emilio cieco che fu felicissimo di sentirsi molto applaudito. E gli spettacoli con il bel teatrino continuarono fino ai primi di novembre. Ci eravamo fatti amici di quasi tutto Biandronno. Amiche di mia moglie, di mia sorella come la Livia Lucchini, e molti miei amici ci consigliarono di passare l’inverno qui in paese e ci trovarono questa casa rustica, dove ancora risiedo, dei fratelli Franzetti di cui aveva la procura Enrico Parola. Ma che faceva tutto era l’Assunta Franzetti. Erano quattro locali; solo uno a pianoterreno era occupato da una vecchietta, la “Maria Celi”. Così ci stabilimmo provvisoriamente io e mia moglie nella casa che divenne mia nel 1951. Invece mia sorella Italia si fermò con la sua carovana nel cortile dei Bernard, poi in seguito nella casa della Livia Lucchini. Il Varesotto ci piacque molto e ci affezionammo. I miei spettacoli piacevano tanto e gli amici erano molti! Decidemmo di rimanere per sempre a Biandronno. Nel 1937 io e la Cleme andammo a Rivalba di Valmacca dove avevamo casa, vendemmo quel poco che avevamo e facemmo portare la nostra residenza a Biandronno per rimanervi per sempre! Sono contento che a Biandronno ho fatto onore, perché quando giravo con il mio bel teatro e ritornavo una seconda volta nella stessa piazza correva la voce: “Ci sono ancora i burattini di Biandronno in piazza!”. Ed il successo era assicurato. E poi di me parlarono bene molti quotidiani con pagine complete: “La Prealpina”, “Il Corriere della Sera”, “Il resto del Carlino”, “Il Messaggero” e molti altri e ripetutamente… Ecco come, quando e perché sono finito a Biandronno per essere ancora per tutti Nonno Berto!
giuseppe cozzi
Di sicuro ci sarà sempre chi guarderà solo alla tecnica e si chiederà 'come', mentre altri di natura più curiosa si chiederanno 'perche'
Man Ray
Di sicuro ci sarà sempre chi guarderà solo alla tecnica e si chiederà 'come', mentre altri di natura più curiosa si chiederanno 'perche'
Man Ray
Re: Gualberto Niemen ed i suoi burattini..... una bella storia
GUALBERTO NIEMEN, UNO DEI PIÙ VECCHI BURATTINAI D’ITALIA, COMPIE NOVANT’ANNI. SIAMO ANDATI A TROVARLO E CI HA APERTO LO SCRIGNO DEI RICORDI
Abita a Biandronno, sulle sponde del lago di Varese, ma per cinquant’anni ha percorso in bicicletta la Pianura padana con il suo teatrino viaggiante. “Gli applausi cancellavano la fatica”. “Partii da Biandronno, e pedalai sotto la neve un giorno e una notte, trainando il carrettino del teatrino viaggiante. Arrivai ad Alessandria, dove ero atteso per uno spettacolo per le truppe, con le mani quasi congelate, ma il successo della rappresentazione fu tale che il Federale mi diede 150 lire, anziché le 100 pattuite. Era il 4 gennaio del 1941”. Gualberto Niemen esordisce con questo aneddoto, narrato con l’orgoglio di chi ha fatto del proprio mestiere una missione. È un burattinaio, probabilmente il più vecchio vivente in Italia, custode di un’arte antica, che affonda le sue radici nella Pianura padana. Non ha mai smesso di lavorare, e ancora oggi, alla vigilia del novantesimo compleanno (il 6 agosto), la sua casa-laboratorio di Biandronno, piccolo centro sulle sponde del lago di Varese, è una fucina di creatività e un serbatoio inesauribile di ricordi. Ci sono l’odore di colla calda, i pezzi di legno grezzo destinati a poco a poco a prendere forma e vita, trasformandosi in maschere della cultura popolare, le foto in bianco e nero che testimoniano di un mondo lontano, da non dimenticare. E al centro di tutto lui, il maestro, “nonno Berto”, come lo chiamano i compaesani. Un amatissimo “Geppetto”. Da qualche anno è quasi cieco, ma si muove con l’agilità di un ragazzo lungo la rampa di scale che porta nel suo piccolo regno, dove con mani sapienti di artigiano sta creando i personaggi della prossima commedia, quella «del mago cattivo e della fata buona». Gualberto Niemen vede con gli occhi del cuore, e libera volentieri i lacci della memoria, per accompagnarci in un viaggio a ritroso nel tempo attraverso una civiltà contadina che non c’è più. “Risiedo a Biandronno dal 1936”, dice, “ma sono nato a Tronzano, vicino a Vercelli, e cresciuto a Torino”. Il cognome ha radici russe: i Niemen erano trapezisti e giocolieri, giunti trecento anni fa dagli Urali fino in Piemonte, per mostrare ai contadini la magia del circo. Giuseppe Niemen, padre di Gualberto, era “acrobata enciclopedista”, e forse avrebbe desiderato che il figlio continuasse la tradizione familiare. “Ma, anche se ero bravo nel triplo salto mortale”, spiega il maestro, “la mia passione erano già allora i burattini, che imparai a costruire giovanissimo, dopo aver assistito, affascinato, agli spettacoli di Giacomo Canardi e di mio zio, Cesare Costa”. L’esordio artistico arriva prestissimo: nel 1921, a soli sedici anni, mette in scena, a Torino, la commedia Il Nuovo Caino, inventando, accanto alla tradizionale maschera di Gianduja, il personaggio di Testafina, un classico di tutto il suo repertorio successivo. Secco, cappelluto e sorridente, Testafina è l’emblema dell’ottimismo ingenuo e ostinato, dell’amore per la vita, di cui riesce a cogliere sempre gli aspetti positivi, o almeno “il meno peggio”. Dal 1921 al 1964, Niemen percorre tutta la Pianura padana, e non c’è piazza, città o villaggio in cui non venga apprezzato: i suoi burattini, le sue creature di legno e cartapesta, ma anche i suoi fondali e i suoi testi teatrali, divertono e fanno riflettere, mescolano spensieratezza e saggezza popolare, attraverso una comicità sia verbale che gestuale. I copioni sono in realtà canovacci in cui, degno erede della Commedia dell’arte, l’autore inserisce di volta in volta nuove avventure, adattando anche battute e personaggi alla cronaca locale, e alternando le sue maschere più tipiche agli eroi della tradizione operistica.
Faceva tutto da solo, Gualberto Niemen, animando contemporaneamente anche dieci burattini, tanto che la gente si domandava quante persone ci fossero dietro il mistero di quel palco. “Mia moglie stava alla cassa e mio cognato, un ex clown, aiutava a montare e smontare le scene, ma il lavoro artistico era tutto mio. La fatica, però, scompariva nel vedere il pubblico numeroso e soddisfatto: quante volte ho visto scendere le lacrime sui volti di bambini e adulti, alla notizia che il teatro si trasferiva, dopo mesi di rappresentazioni”. Neanche l’arrivo della Tv riuscì a scalfire la popolarità di “nonno Berto”, che ama ricordare il tutto esaurito delle sue rappresentazioni anche nelle sere del Musichiere e di Lascia o Raddoppia. Poi, nel ’64, decide di dar retta alla moglie, stanca di tante peregrinazioni: nel Vercellese e nel Monferrato, nell’Alessandrino e in Lomellina. Niemen mette in pensione il teatro viaggiante, e si dedica, a Biandronno, all’attività di decoratore, senza comunque mai smettere di costruire burattini e di rappresentare commedie nei centri della zona. “L’arte di Gualberto Niemen”, spiega il vicesindaco di Biandronno, Bruno Perazzolo, “è l’ultima custode della cultura del lago, e faremo di tutto perché possa continuare a essere una testimonianza importante, nella convinzione che il futuro debba avere un cuore antico”. Il Comune festeggia il novantesimo compleanno di “nonno Berto” in maniera adeguata: in programma, tra l’altro, c’è la nascita dell’associazione “Museo Niemen”, coordinata da Federica Lucchini, che raccoglierà tutto il materiale che riguarda l’artista, dai burattini ai testi teatrali, dalle scenografie degli spettacoli alle fotografie. Gualberto Niemen ascolta i buoni propositi degli amministratori e approva sorridendo, con gli occhi dilatati dietro le spesse lenti. Poi ci saluta affacciandosi dal balcone: “Giornalista, si ricordi che cosa diceva il mio Testafina: «Se volete essere felici non desiderate mai quello che non potreste avere»”.
Abita a Biandronno, sulle sponde del lago di Varese, ma per cinquant’anni ha percorso in bicicletta la Pianura padana con il suo teatrino viaggiante. “Gli applausi cancellavano la fatica”. “Partii da Biandronno, e pedalai sotto la neve un giorno e una notte, trainando il carrettino del teatrino viaggiante. Arrivai ad Alessandria, dove ero atteso per uno spettacolo per le truppe, con le mani quasi congelate, ma il successo della rappresentazione fu tale che il Federale mi diede 150 lire, anziché le 100 pattuite. Era il 4 gennaio del 1941”. Gualberto Niemen esordisce con questo aneddoto, narrato con l’orgoglio di chi ha fatto del proprio mestiere una missione. È un burattinaio, probabilmente il più vecchio vivente in Italia, custode di un’arte antica, che affonda le sue radici nella Pianura padana. Non ha mai smesso di lavorare, e ancora oggi, alla vigilia del novantesimo compleanno (il 6 agosto), la sua casa-laboratorio di Biandronno, piccolo centro sulle sponde del lago di Varese, è una fucina di creatività e un serbatoio inesauribile di ricordi. Ci sono l’odore di colla calda, i pezzi di legno grezzo destinati a poco a poco a prendere forma e vita, trasformandosi in maschere della cultura popolare, le foto in bianco e nero che testimoniano di un mondo lontano, da non dimenticare. E al centro di tutto lui, il maestro, “nonno Berto”, come lo chiamano i compaesani. Un amatissimo “Geppetto”. Da qualche anno è quasi cieco, ma si muove con l’agilità di un ragazzo lungo la rampa di scale che porta nel suo piccolo regno, dove con mani sapienti di artigiano sta creando i personaggi della prossima commedia, quella «del mago cattivo e della fata buona». Gualberto Niemen vede con gli occhi del cuore, e libera volentieri i lacci della memoria, per accompagnarci in un viaggio a ritroso nel tempo attraverso una civiltà contadina che non c’è più. “Risiedo a Biandronno dal 1936”, dice, “ma sono nato a Tronzano, vicino a Vercelli, e cresciuto a Torino”. Il cognome ha radici russe: i Niemen erano trapezisti e giocolieri, giunti trecento anni fa dagli Urali fino in Piemonte, per mostrare ai contadini la magia del circo. Giuseppe Niemen, padre di Gualberto, era “acrobata enciclopedista”, e forse avrebbe desiderato che il figlio continuasse la tradizione familiare. “Ma, anche se ero bravo nel triplo salto mortale”, spiega il maestro, “la mia passione erano già allora i burattini, che imparai a costruire giovanissimo, dopo aver assistito, affascinato, agli spettacoli di Giacomo Canardi e di mio zio, Cesare Costa”. L’esordio artistico arriva prestissimo: nel 1921, a soli sedici anni, mette in scena, a Torino, la commedia Il Nuovo Caino, inventando, accanto alla tradizionale maschera di Gianduja, il personaggio di Testafina, un classico di tutto il suo repertorio successivo. Secco, cappelluto e sorridente, Testafina è l’emblema dell’ottimismo ingenuo e ostinato, dell’amore per la vita, di cui riesce a cogliere sempre gli aspetti positivi, o almeno “il meno peggio”. Dal 1921 al 1964, Niemen percorre tutta la Pianura padana, e non c’è piazza, città o villaggio in cui non venga apprezzato: i suoi burattini, le sue creature di legno e cartapesta, ma anche i suoi fondali e i suoi testi teatrali, divertono e fanno riflettere, mescolano spensieratezza e saggezza popolare, attraverso una comicità sia verbale che gestuale. I copioni sono in realtà canovacci in cui, degno erede della Commedia dell’arte, l’autore inserisce di volta in volta nuove avventure, adattando anche battute e personaggi alla cronaca locale, e alternando le sue maschere più tipiche agli eroi della tradizione operistica.
Faceva tutto da solo, Gualberto Niemen, animando contemporaneamente anche dieci burattini, tanto che la gente si domandava quante persone ci fossero dietro il mistero di quel palco. “Mia moglie stava alla cassa e mio cognato, un ex clown, aiutava a montare e smontare le scene, ma il lavoro artistico era tutto mio. La fatica, però, scompariva nel vedere il pubblico numeroso e soddisfatto: quante volte ho visto scendere le lacrime sui volti di bambini e adulti, alla notizia che il teatro si trasferiva, dopo mesi di rappresentazioni”. Neanche l’arrivo della Tv riuscì a scalfire la popolarità di “nonno Berto”, che ama ricordare il tutto esaurito delle sue rappresentazioni anche nelle sere del Musichiere e di Lascia o Raddoppia. Poi, nel ’64, decide di dar retta alla moglie, stanca di tante peregrinazioni: nel Vercellese e nel Monferrato, nell’Alessandrino e in Lomellina. Niemen mette in pensione il teatro viaggiante, e si dedica, a Biandronno, all’attività di decoratore, senza comunque mai smettere di costruire burattini e di rappresentare commedie nei centri della zona. “L’arte di Gualberto Niemen”, spiega il vicesindaco di Biandronno, Bruno Perazzolo, “è l’ultima custode della cultura del lago, e faremo di tutto perché possa continuare a essere una testimonianza importante, nella convinzione che il futuro debba avere un cuore antico”. Il Comune festeggia il novantesimo compleanno di “nonno Berto” in maniera adeguata: in programma, tra l’altro, c’è la nascita dell’associazione “Museo Niemen”, coordinata da Federica Lucchini, che raccoglierà tutto il materiale che riguarda l’artista, dai burattini ai testi teatrali, dalle scenografie degli spettacoli alle fotografie. Gualberto Niemen ascolta i buoni propositi degli amministratori e approva sorridendo, con gli occhi dilatati dietro le spesse lenti. Poi ci saluta affacciandosi dal balcone: “Giornalista, si ricordi che cosa diceva il mio Testafina: «Se volete essere felici non desiderate mai quello che non potreste avere»”.
giuseppe cozzi
Di sicuro ci sarà sempre chi guarderà solo alla tecnica e si chiederà 'come', mentre altri di natura più curiosa si chiederanno 'perche'
Man Ray
Di sicuro ci sarà sempre chi guarderà solo alla tecnica e si chiederà 'come', mentre altri di natura più curiosa si chiederanno 'perche'
Man Ray
Re: Gualberto Niemen ed i suoi burattini..... una bella storia
Il brandeggio della morte
Era l’anno 1911: anno di glorie italiane ( Le gloriose armi italiane che conquistarono valorosamente la Libia) Nel mese di Maggio una compagnia ginnasta aveva piantato le sue tende nella pubblica piazza di Villardora (Valle di Susa), e tutte le sere la piccola compagnia dava il suo spettacolo e una folla di pubblico vi faceva sempre cornice alle rappresentazioni incoraggiando e onorando gli artisti con applausi e con larghe mance in denaro dando così agio alla compagnia di passarsela discretamente bene. La compagnia era composta: dal vecchio Alessandro Niemen – uomo buono e giusto assai distinto da sua moglie Teresa detta Gigin, dalla loro figlia Adelaide col marito Viotti Augusto e da un loro figlio di 3 anni di nome Renato, dal figlio Giuseppe e da sua moglie Caprani Virginia e dai loro figli, Gualberto di 6 anni e Italia di 3 anni. Questa buona gente avevano una così bella maniera di condurre la vita che per cui erano assai ben visti, onorati e stimati da tutti; ma più di tutti era ben vista Virginia, poiché era la beniamina del pubblico, essendo essa una delle migliori artiste, non solo di questa compagnia, ma quasi di tutte le compagnie esistenti allora in Italia. Era un Giovedì: la compagnia aveva quel giorno affisso i manifesti per le vie del paese, che nello spettacolo di quella sera (essendo la serata di addio della compagnia) la signora Adelaide, avrebbe eseguito la danza della libellule con il finale brandeggio della morte sul filo di ferro. Ma quella sera un acquazzone impedii alla compagnia di dare il suo ultimo spettacolo e così la rappresentazione venne sospesa e rimandata alla sera seguente. L’indomani era un Venerdì: un sole ardente e gioioso di Maggio rallegrava e vivificava tutto e tutti. Era abitudine quasi religiosa della compagnia di mai lavorare al Venerdì; ma siccome era l’ultimo giorno di permanenza a Villardora volle lavorare lo stesso rappresentando per serata d’addio l’annunziato programma nel precedente Giovedì interrotto dal temporale. Dunque quella sera la signora Adelaide, doveva per numero sensazionale, eseguire la danza della morte sopra un sottile filo di ferro tirato teso alla sola altezza di due metri dal suolo. Il finale di detto numero veniva appunto chiamato brandeggio della morte, perché era un esercizio molto difficile e assai pericoloso, il quale suscitava sempre nel pubblico, emozione e panico nello stesso tempo. Ecco: è quasi l’ora dell’ultima rappresentazione della compagnia Niemen… Una folla enorme di spettatori – usciti dalla benedizione del mese di Maria SS. – gremiva la piazza intorno alla piccola “arena”… Tutti gli artisti erano intenti a prepararsi ma Adelaide mentre si metteva il costume per l’esibizione del suo numero sensazionale accusò un forte mal di ventre per cui dovette adagiarsi sul lettino nella sua carovana dicendo a suo marito: – Ahimè quanto male mi sento al ventre, Gusto, se mi sento così male non potrò fare il filo questa sera. La buona donna si trovava anche in stato interessante: – Senti – disse dolente al marito – chiama la Virginia, dille di venire qui da me, le dirò se vuol lavorare lei al mio posto questa sera. Essa è tanto buona che non mi negherà questo favore: tanto nella condizione che mi trovo! Vai. Il buon uomo ubbidì senza fiatare e uscì dalla carovana per andare a chiamare la cognata. In quel mentre, Virginia, che aveva appena finito di mettere a letto la sua piccola Italia, era intenta ad infarinare da pagliaccetto il suo piccolo Gualberto che adorava e che avrebbe divorato di baci. Il pagliaccetto mentre la mamma lo abbellettava le diceva: – Sai, mamma? Quella signora che mi prende sempre in braccio mi ha detto che se io questa sera farò tante belle capriole sul tappeto, lei mi regalerà un fagotto di ciliege tutte belle grosse – E così dopo – l’interruppe la mamma – se ne mangerai tante ti faranno venire male alla pancia e io ti farò poi prende un bicchierone d’olio di ricino – Permesso! – chiamò Gusto che stava salendo in su per la scala della carovana della cognata.– Avanti, avanti Guido – rispose Virginia di dentro che aveva conosciuta la voce dell’uomo, il quale entrò e disse: – Virginia, c’è mia moglie che sta male, la quale m’ha detto di dirti, per piacere, di andare un momento da lei che ha bisogno di parlarti. – Gualberto – disse la donna a suo figlio – tu vai pure a giocare sul tappeto ch’io vado un momento dalla zia che sta poco bene – e corse via in fretta seguita da Guido. Appena fu presso la cognata dolente le chiese: – Cosa ti senti Adelaide?– Ah! M’è saltato un forte mal di ventre che mi costringe a stare a letto – si lamentò la moglie di Guido – Volevo dirti, Virginia, se mai non mi passassero questi dolori, se vuoi essere così buona, di fare te il mio numero questa sera. Sai, sarebbe un grosso piacere che faresti a me e accontenteresti lo stesso il pubblico che è venuto per vedere la celebre danza delle libellule. Bene, bene, non impensierirti per questo, vuol dire che per questa sera lavorerò per me e per te – le assicurò Virginia con un’ accento generoso e dolce; poi continuò: – Ora vuoi che ti facciamo scaldare qualche cosa? No, grazie Virginia. Tu vai pure a vestirti, che se mai mi sentissi ancora molto male, Gusto chiamerò mamma Gigin; così se mi occorrerà qualche cosa me lo preparerà lei. Alle ore nove precise lo spettacolo ebbe inizio e per primo numero era annunziata la celebre danza sul filo. Il vecchio Alessandro, che era direttore del piccolo circo, avvertì il pubblico che siccome la signora Adelaide era indisposta, la danza della morte sul filo di ferro l’avrebbe eseguita la signora Virginia. I Toni della compagnia aprirono la rappresentazione con qualche ridicolo scherzo; e subito dopo una piccola e ridotta orchestra intonò la musica della danza. Virginia, leggera davvero come una libellula, salì quasi di volo sul predellino di partenza, e dopo aver salutato il pubblico con una bella maniera piena di grazia ed eleganza, iniziò la celebre danza, che eseguì con grande ed agilissima semplicità fra la meraviglia di tutti gli spettatori i quali applaudirono clamorosamente a lungo. Poi spettabili signori, – disse il direttore al pubblico, nell’intervallo del primo tempo del celebre numero, – ora la nostra artista eseguirà il pericoloso esercizio chiamato il brandeggio della morte; perciò si raccomanda vivamente a tutti gli spettatori di prestare la massima attenzione in silenzio. Un sepolcrale silenzio seguì subito le parole del vecchio Alessandro. Il filo, che durante la danza era stato tirato tesissimo, venne mollato onde fosse dondolante per il brandeggio. L’artista, di sopra il predellino, salutò ancora il pubblico, poi agilmente a passetti andò a fermarsi in mezzo al filo: alzò una gamba prendendosi il piede con una mano e cominciò dondolarsi sul filo, prima piano, poi più forte e poi più forte fin quando faceva l’impressione di perdere l’equilibrio e di cadere da un momento all’altro per cui gli spettatori impressionati battevano le mani e gridavano con raccapriccio: “Basta! basta! basta!”… Ma ahimè! ad un tratto alla disgraziata artista slittò il piede col quale si ergeva in equilibrio sul filo durante il brandeggio fatale e cadde con violenza a cavalcioni del filo tagliandosi un importante pericolosa vena; dopo di che cadde a terra fra il raccapriccio e lo spavento generale. Ma la sciagurata donna non diede tempo a nessuno di aiutarla sforzandosi di sorridere lo stesso; si alzò da sé stessa; salutò ancora gentilmente gli spettatori e corse diritta nella sua carovana lasciando però dietro di sé un sentiero di sangue. Era quel sentiero di sangue la via della morte.
«Mia madre lavorava sul filo, è caduta, ma non è morta per la caduta; faceva il brandeggio della morte finale, il filo restava molle e lei si dondolava, con una mano teneva l’ombrellino, l’altra mano teneva una gamba alta, e si dondolava così. È scivolata, è caduta, ma non è morta per la caduta, è caduta a cavallo del filo e si è recisa una vena femorale, è morta dissanguata: perché è discesa dal filo, ha fatto l’inchino, ha salutato la gente, prima che giungesse in carovana ha lasciato tutto un sentiero di sangue. Prima che uno andasse a prendere il dottore a Susa e portarlo lì sarebbe già morta. E allora dopo io pensavo: “È meglio che faccio il burattinaio; se rompo la testa a un burattino ne faccio un altro, ma se me la rompo io, chi mi fa la testa?”».
Alle ore tre del seguente mattino, il dottore di Villardora non era ancora riuscito a fermare il sangue alla povera donna. La carovana era piena di famigliari e di buona gente. Di fuori ancora molti spettatori – che alla sera prima avevano assistito alla vera danza della morte – sostavano ancora per sapere qualche risultante notizia della sciagura Erano le quattro meno qualche minuto; già tutti piangevano silenziosamente poiché il dottore aveva perduto ogni speranza di poterla salvare. La povera Virginia ormai dissanguata, ma con la ragione serena, disse con voce flebile, dolorosa ma chiara: I miei poveri bambini dove sono? Portatemeli qui vicino a me che voglio accarezzarli li voglio vicino,
Mamma Gigin prese la piccola Italia e gliela portò nel letto; un’altra persona prese il piccolo
Gualberto. Quando la povera morente ebbe presso di sé le sue piccole creature sorrise dolorosamente e lamentò:
– Miei poveri piccoli cari!… forse fra poco vi lascerò per sempre soli quaggiù… Certo chissà
quanto soffrire farete in questo mondo senza il conforto accarezzevole della vostra cara mamma.
Qui la povera donna tacque e si irrigidì per un mezzo minuto primo, poi riprese un po’ di forza e
sussurrò: – Dio! Dio mio! Voi che mi strappate così giovane da queste povere creature… abbiate almeno voi pietà di loro. La morente tacque ancora e questa volta per non parlar mai più. Aperse gli occhi divenuti vitrei, sorrise a tutti come per salutarli per sempre poi strinse fortemente presso il cuore i suoi diletti figli, ebbe ancora qualche sussulto, qualche violento battito di cuore per essi; ma poi più nulla più nulla. Era morta!
Quella povera donna, che viveva per i suoi figli, per cui avrebbe fatto qualunque sacrificio con
gioia; quella povera cristiana piena di eccelse virtù; quella vera mamma di famiglia: poiché era buona, amorosa, allegra, intelligente, forte e volenterosa era morta vittima della generosità e del dovere. Per tutto il giorno di Sabato e la Domenica seguente, dai più vecchi ai più giovani degli abitanti di Villardora, pareva una gara di pietà, perché tutti si recavano a rendere l’estremo saluto alla disgraziata artista, la cui salma era ben composta nel lettino in carovana trasformata in minuscola camera ardente. E tutta quella pietosa gente, oltre al cordoglio per la povera morta, sentivano una straziante pietà per gli infelici senza mamma. E l’unica fortuna che avevano i poveri senza mamma, era la loro infantile età, per la quale non potevano ancora provare tanto strazio per la scomparsa della loro cara mamma che li adorava. Anzi per la piccola Italia erano giorni di letizia e di festa nei quali la sua mamma giaceva morta nel letto in carovana; per essa erano giorni belli, perché tutte le pietose persone che si recavano a visitare la povera Virginia e recitare sulla cui salma qualche cristiana preghiera, donavano alla piccola Italia, qualche dolce o qualche quattrino. Oh bella età fortunata sono i tre anni! Bella e fortunata età poiché basta un piccolo dolce per rendere contenta e felice la vita. Per Berto, sebbene non avesse ancora sei anni, invece non era più così. Egli sentiva già nel suo piccolo essere che senza mamma la vita sarebbe stata un’altra. E così, d’allora in poi, se quei poveri infelici avessero ancora chiamato: “mamma! mamma!” ella non avrebbe più risposto. E tutto quello che quella povera madre avrebbe potuto fare per loro era di pregare, con la sua splendida anima, dall’alto del cielo il buon Dio, affinché rendesse i suoi figli degni di raggiungerla un giorno in paradiso. Il giorno dopo, tutta la gente di Villardora, inquadrata in un imponente corteo funebre, accompagnò la salma della sfortunata artista fino all’ultima dimora. E durante il funerale tutti piangevano dolorosamente, ma solo la piccola Italia era contenta e rideva; perché nel suo scarso e troppo giovane ragionare diceva che la sua mamma era andata in cielo e che dal paradiso le avrebbe portati tanti bei giocattoli e tanti buoni dolci. Oh! povera e tenera creatura! Oh qual mai infantile illusione la rendeva felice! Invece il piccolo Berto la ragionava diversamente dalla sua sorellina, e in cuor suo si domandava da sé stesso piangendo: “Chi d’ora in poi mi farà le carezze che mi faceva la mamma? Chi mi vorrà mai tanto bene come mi voleva lei? Chi avrà un cuore nel petto che batterà d’amore sincero per me e la mia sorellina come quello della nostra mamma? Chi ci risponderà quando il nostro piccolo cuore ci obbligherà a chiamare: “Mamma! mamma cara, mamma buona dove sei?”. Giuseppe, il marito di Virginia, era pazzo di dispiacere, ma siccome era già uomo dedito al giuoco e al vino, cercò nel vino la forza di sopprimere il dolore. Qualche settimana dopo, Giuseppe lasciava i suoi figli in custodia ai suoi vecchi genitori “mamma Gigin e papa Alessandro” e partiva per andare a fare l’artista in un grande circo equestre. A parte i molti vizi che Giuseppe aveva, a quei tempi, egli era uno dei migliori saltatori del mondo, per cui era ricercato dai circhi più grandi. Sfatta la piccola compagnia, partito il figlio Giuseppe; partita la figlia Adelaide col consorte e il figlioletto loro, mamma Gigin aveva con lo stesso cuore di mamma vera accolti Gualberto e Italia. Mamma Gigin e papà Alessandro volevano davvero bene ai loro disgraziati nipotini, e tanto più che poveri piccoli erano rimasti senza mamma proprio nell’età in cui ne avevano assai bisogno; sentivano per ciò un particolare affetto che coscienziosamente avrebbe dato loro la forza anche nella vecchiaia di fare qualunque sacrificio per essi. I buoni vecchietti si guadagnavano la vita onestamente esercitando un tiro a segno e un banchetto di bevande ghiacciate e sapevano così giusto a regolare la vita, ormai resa esperta nel vero senso della parola, che il poco lo facevano bastare per molto; perciò facevano sempre bella figura, che mai nulla loro mancava essendo scrupolosamente provvidi. Papà Alessandro era un bell’uomo: alto e diritto come un fuso, slanciato, aveva due baffi all’Umberto, aveva una splendida capigliatura bianca; un colore bellissimo in volto lo rendeva piacente e simpatico in ogni aspetto. Il buon Alessandro aveva l’abitudine di alzarsi presto: al mattino era sempre lui che dava il buon giorno al sole al suo sorgere. Prima del caffè, il buon vecchio, in compagnia di un suo inseparabile cane, aveva già sempre fatti dai sei agli otto chilometri di strada a piedi per la campagna per respirarvi l’aria buona e salubre. Non era ozioso, ma molto laborioso. Mamma Gigin era una buona vecchietta che nella sua vita non ascoltava altra voce nel cuore, che quella del dovere e del bene per la sua famiglia. I due vecchietti si volevano un gran bene e si facevano davvero una intima e bella compagnia. Essi giravano il mondo proprio con gioiosa passione e, sebbene il girar del mondo è molto avventuroso essendovi dei momenti brutti, essi erano contenti del loro stato e perciò vivevano filosoficamente beati. Quando, specialmente, nella stagione cattiva, il tempo gramo il costringeva a stare ritirati in carovana e andare a letto presto, mamma Gigin metteva a letto i suoi nipotini e nel medesimo tempo raccontava loro qualche storiella fino a quando si fossero addormentati profondamente. Anche papà Alessandro, mentre faceva un onesta fumata con una lunga pipa di gesso, ascoltava sempre anche lui la storiella della nonna. E quando i bimbi s’erano addormentati, i due coniugi facevano qualche partita a tresette sin quando il sonno li consigliava di coricarsi. Insomma facevano una vita tranquilla da buoni cristiani, facendosi citare per modelli di onestà e di bene reciproco. Come già dissi, la vita girando il mondo, specialmente quando gli affari vanno bene, è assai attraente e divertente; ma purtroppo vi sono dei momenti brutti e avventurosi. Del ramo di mio nonno Alessandro, erano 4 fratelli. Alessandro, Giovanotto, Maurizio e Antonio e una sorella. Quasi tutti artisti da circo. Negli altri rami dei Niemen anticamente ci sono stati cantastorie, e anche chi andava nelle cascine fattorie a raccontare belle storie fiabesche. Perciò una volta le cascine fattorie erano popolate come piccoli villaggi. Nel mio ramo dei fratelli Niemen ci sono stati artisti famosi come saltatori, musicisti, pagliacci e altro. Mio nonno Alessandro si sa che quando nacque gli aveva fatto da padrino nel battesimo Camillo Cavour, che era andato a vedere il circo, e gli donò 5 monete d’oro da 100 lire, delle quali si potrebbe scrivere un brutto racconto a lieto fine…(
Era l’anno 1911: anno di glorie italiane ( Le gloriose armi italiane che conquistarono valorosamente la Libia) Nel mese di Maggio una compagnia ginnasta aveva piantato le sue tende nella pubblica piazza di Villardora (Valle di Susa), e tutte le sere la piccola compagnia dava il suo spettacolo e una folla di pubblico vi faceva sempre cornice alle rappresentazioni incoraggiando e onorando gli artisti con applausi e con larghe mance in denaro dando così agio alla compagnia di passarsela discretamente bene. La compagnia era composta: dal vecchio Alessandro Niemen – uomo buono e giusto assai distinto da sua moglie Teresa detta Gigin, dalla loro figlia Adelaide col marito Viotti Augusto e da un loro figlio di 3 anni di nome Renato, dal figlio Giuseppe e da sua moglie Caprani Virginia e dai loro figli, Gualberto di 6 anni e Italia di 3 anni. Questa buona gente avevano una così bella maniera di condurre la vita che per cui erano assai ben visti, onorati e stimati da tutti; ma più di tutti era ben vista Virginia, poiché era la beniamina del pubblico, essendo essa una delle migliori artiste, non solo di questa compagnia, ma quasi di tutte le compagnie esistenti allora in Italia. Era un Giovedì: la compagnia aveva quel giorno affisso i manifesti per le vie del paese, che nello spettacolo di quella sera (essendo la serata di addio della compagnia) la signora Adelaide, avrebbe eseguito la danza della libellule con il finale brandeggio della morte sul filo di ferro. Ma quella sera un acquazzone impedii alla compagnia di dare il suo ultimo spettacolo e così la rappresentazione venne sospesa e rimandata alla sera seguente. L’indomani era un Venerdì: un sole ardente e gioioso di Maggio rallegrava e vivificava tutto e tutti. Era abitudine quasi religiosa della compagnia di mai lavorare al Venerdì; ma siccome era l’ultimo giorno di permanenza a Villardora volle lavorare lo stesso rappresentando per serata d’addio l’annunziato programma nel precedente Giovedì interrotto dal temporale. Dunque quella sera la signora Adelaide, doveva per numero sensazionale, eseguire la danza della morte sopra un sottile filo di ferro tirato teso alla sola altezza di due metri dal suolo. Il finale di detto numero veniva appunto chiamato brandeggio della morte, perché era un esercizio molto difficile e assai pericoloso, il quale suscitava sempre nel pubblico, emozione e panico nello stesso tempo. Ecco: è quasi l’ora dell’ultima rappresentazione della compagnia Niemen… Una folla enorme di spettatori – usciti dalla benedizione del mese di Maria SS. – gremiva la piazza intorno alla piccola “arena”… Tutti gli artisti erano intenti a prepararsi ma Adelaide mentre si metteva il costume per l’esibizione del suo numero sensazionale accusò un forte mal di ventre per cui dovette adagiarsi sul lettino nella sua carovana dicendo a suo marito: – Ahimè quanto male mi sento al ventre, Gusto, se mi sento così male non potrò fare il filo questa sera. La buona donna si trovava anche in stato interessante: – Senti – disse dolente al marito – chiama la Virginia, dille di venire qui da me, le dirò se vuol lavorare lei al mio posto questa sera. Essa è tanto buona che non mi negherà questo favore: tanto nella condizione che mi trovo! Vai. Il buon uomo ubbidì senza fiatare e uscì dalla carovana per andare a chiamare la cognata. In quel mentre, Virginia, che aveva appena finito di mettere a letto la sua piccola Italia, era intenta ad infarinare da pagliaccetto il suo piccolo Gualberto che adorava e che avrebbe divorato di baci. Il pagliaccetto mentre la mamma lo abbellettava le diceva: – Sai, mamma? Quella signora che mi prende sempre in braccio mi ha detto che se io questa sera farò tante belle capriole sul tappeto, lei mi regalerà un fagotto di ciliege tutte belle grosse – E così dopo – l’interruppe la mamma – se ne mangerai tante ti faranno venire male alla pancia e io ti farò poi prende un bicchierone d’olio di ricino – Permesso! – chiamò Gusto che stava salendo in su per la scala della carovana della cognata.– Avanti, avanti Guido – rispose Virginia di dentro che aveva conosciuta la voce dell’uomo, il quale entrò e disse: – Virginia, c’è mia moglie che sta male, la quale m’ha detto di dirti, per piacere, di andare un momento da lei che ha bisogno di parlarti. – Gualberto – disse la donna a suo figlio – tu vai pure a giocare sul tappeto ch’io vado un momento dalla zia che sta poco bene – e corse via in fretta seguita da Guido. Appena fu presso la cognata dolente le chiese: – Cosa ti senti Adelaide?– Ah! M’è saltato un forte mal di ventre che mi costringe a stare a letto – si lamentò la moglie di Guido – Volevo dirti, Virginia, se mai non mi passassero questi dolori, se vuoi essere così buona, di fare te il mio numero questa sera. Sai, sarebbe un grosso piacere che faresti a me e accontenteresti lo stesso il pubblico che è venuto per vedere la celebre danza delle libellule. Bene, bene, non impensierirti per questo, vuol dire che per questa sera lavorerò per me e per te – le assicurò Virginia con un’ accento generoso e dolce; poi continuò: – Ora vuoi che ti facciamo scaldare qualche cosa? No, grazie Virginia. Tu vai pure a vestirti, che se mai mi sentissi ancora molto male, Gusto chiamerò mamma Gigin; così se mi occorrerà qualche cosa me lo preparerà lei. Alle ore nove precise lo spettacolo ebbe inizio e per primo numero era annunziata la celebre danza sul filo. Il vecchio Alessandro, che era direttore del piccolo circo, avvertì il pubblico che siccome la signora Adelaide era indisposta, la danza della morte sul filo di ferro l’avrebbe eseguita la signora Virginia. I Toni della compagnia aprirono la rappresentazione con qualche ridicolo scherzo; e subito dopo una piccola e ridotta orchestra intonò la musica della danza. Virginia, leggera davvero come una libellula, salì quasi di volo sul predellino di partenza, e dopo aver salutato il pubblico con una bella maniera piena di grazia ed eleganza, iniziò la celebre danza, che eseguì con grande ed agilissima semplicità fra la meraviglia di tutti gli spettatori i quali applaudirono clamorosamente a lungo. Poi spettabili signori, – disse il direttore al pubblico, nell’intervallo del primo tempo del celebre numero, – ora la nostra artista eseguirà il pericoloso esercizio chiamato il brandeggio della morte; perciò si raccomanda vivamente a tutti gli spettatori di prestare la massima attenzione in silenzio. Un sepolcrale silenzio seguì subito le parole del vecchio Alessandro. Il filo, che durante la danza era stato tirato tesissimo, venne mollato onde fosse dondolante per il brandeggio. L’artista, di sopra il predellino, salutò ancora il pubblico, poi agilmente a passetti andò a fermarsi in mezzo al filo: alzò una gamba prendendosi il piede con una mano e cominciò dondolarsi sul filo, prima piano, poi più forte e poi più forte fin quando faceva l’impressione di perdere l’equilibrio e di cadere da un momento all’altro per cui gli spettatori impressionati battevano le mani e gridavano con raccapriccio: “Basta! basta! basta!”… Ma ahimè! ad un tratto alla disgraziata artista slittò il piede col quale si ergeva in equilibrio sul filo durante il brandeggio fatale e cadde con violenza a cavalcioni del filo tagliandosi un importante pericolosa vena; dopo di che cadde a terra fra il raccapriccio e lo spavento generale. Ma la sciagurata donna non diede tempo a nessuno di aiutarla sforzandosi di sorridere lo stesso; si alzò da sé stessa; salutò ancora gentilmente gli spettatori e corse diritta nella sua carovana lasciando però dietro di sé un sentiero di sangue. Era quel sentiero di sangue la via della morte.
«Mia madre lavorava sul filo, è caduta, ma non è morta per la caduta; faceva il brandeggio della morte finale, il filo restava molle e lei si dondolava, con una mano teneva l’ombrellino, l’altra mano teneva una gamba alta, e si dondolava così. È scivolata, è caduta, ma non è morta per la caduta, è caduta a cavallo del filo e si è recisa una vena femorale, è morta dissanguata: perché è discesa dal filo, ha fatto l’inchino, ha salutato la gente, prima che giungesse in carovana ha lasciato tutto un sentiero di sangue. Prima che uno andasse a prendere il dottore a Susa e portarlo lì sarebbe già morta. E allora dopo io pensavo: “È meglio che faccio il burattinaio; se rompo la testa a un burattino ne faccio un altro, ma se me la rompo io, chi mi fa la testa?”».
Alle ore tre del seguente mattino, il dottore di Villardora non era ancora riuscito a fermare il sangue alla povera donna. La carovana era piena di famigliari e di buona gente. Di fuori ancora molti spettatori – che alla sera prima avevano assistito alla vera danza della morte – sostavano ancora per sapere qualche risultante notizia della sciagura Erano le quattro meno qualche minuto; già tutti piangevano silenziosamente poiché il dottore aveva perduto ogni speranza di poterla salvare. La povera Virginia ormai dissanguata, ma con la ragione serena, disse con voce flebile, dolorosa ma chiara: I miei poveri bambini dove sono? Portatemeli qui vicino a me che voglio accarezzarli li voglio vicino,
Mamma Gigin prese la piccola Italia e gliela portò nel letto; un’altra persona prese il piccolo
Gualberto. Quando la povera morente ebbe presso di sé le sue piccole creature sorrise dolorosamente e lamentò:
– Miei poveri piccoli cari!… forse fra poco vi lascerò per sempre soli quaggiù… Certo chissà
quanto soffrire farete in questo mondo senza il conforto accarezzevole della vostra cara mamma.
Qui la povera donna tacque e si irrigidì per un mezzo minuto primo, poi riprese un po’ di forza e
sussurrò: – Dio! Dio mio! Voi che mi strappate così giovane da queste povere creature… abbiate almeno voi pietà di loro. La morente tacque ancora e questa volta per non parlar mai più. Aperse gli occhi divenuti vitrei, sorrise a tutti come per salutarli per sempre poi strinse fortemente presso il cuore i suoi diletti figli, ebbe ancora qualche sussulto, qualche violento battito di cuore per essi; ma poi più nulla più nulla. Era morta!
Quella povera donna, che viveva per i suoi figli, per cui avrebbe fatto qualunque sacrificio con
gioia; quella povera cristiana piena di eccelse virtù; quella vera mamma di famiglia: poiché era buona, amorosa, allegra, intelligente, forte e volenterosa era morta vittima della generosità e del dovere. Per tutto il giorno di Sabato e la Domenica seguente, dai più vecchi ai più giovani degli abitanti di Villardora, pareva una gara di pietà, perché tutti si recavano a rendere l’estremo saluto alla disgraziata artista, la cui salma era ben composta nel lettino in carovana trasformata in minuscola camera ardente. E tutta quella pietosa gente, oltre al cordoglio per la povera morta, sentivano una straziante pietà per gli infelici senza mamma. E l’unica fortuna che avevano i poveri senza mamma, era la loro infantile età, per la quale non potevano ancora provare tanto strazio per la scomparsa della loro cara mamma che li adorava. Anzi per la piccola Italia erano giorni di letizia e di festa nei quali la sua mamma giaceva morta nel letto in carovana; per essa erano giorni belli, perché tutte le pietose persone che si recavano a visitare la povera Virginia e recitare sulla cui salma qualche cristiana preghiera, donavano alla piccola Italia, qualche dolce o qualche quattrino. Oh bella età fortunata sono i tre anni! Bella e fortunata età poiché basta un piccolo dolce per rendere contenta e felice la vita. Per Berto, sebbene non avesse ancora sei anni, invece non era più così. Egli sentiva già nel suo piccolo essere che senza mamma la vita sarebbe stata un’altra. E così, d’allora in poi, se quei poveri infelici avessero ancora chiamato: “mamma! mamma!” ella non avrebbe più risposto. E tutto quello che quella povera madre avrebbe potuto fare per loro era di pregare, con la sua splendida anima, dall’alto del cielo il buon Dio, affinché rendesse i suoi figli degni di raggiungerla un giorno in paradiso. Il giorno dopo, tutta la gente di Villardora, inquadrata in un imponente corteo funebre, accompagnò la salma della sfortunata artista fino all’ultima dimora. E durante il funerale tutti piangevano dolorosamente, ma solo la piccola Italia era contenta e rideva; perché nel suo scarso e troppo giovane ragionare diceva che la sua mamma era andata in cielo e che dal paradiso le avrebbe portati tanti bei giocattoli e tanti buoni dolci. Oh! povera e tenera creatura! Oh qual mai infantile illusione la rendeva felice! Invece il piccolo Berto la ragionava diversamente dalla sua sorellina, e in cuor suo si domandava da sé stesso piangendo: “Chi d’ora in poi mi farà le carezze che mi faceva la mamma? Chi mi vorrà mai tanto bene come mi voleva lei? Chi avrà un cuore nel petto che batterà d’amore sincero per me e la mia sorellina come quello della nostra mamma? Chi ci risponderà quando il nostro piccolo cuore ci obbligherà a chiamare: “Mamma! mamma cara, mamma buona dove sei?”. Giuseppe, il marito di Virginia, era pazzo di dispiacere, ma siccome era già uomo dedito al giuoco e al vino, cercò nel vino la forza di sopprimere il dolore. Qualche settimana dopo, Giuseppe lasciava i suoi figli in custodia ai suoi vecchi genitori “mamma Gigin e papa Alessandro” e partiva per andare a fare l’artista in un grande circo equestre. A parte i molti vizi che Giuseppe aveva, a quei tempi, egli era uno dei migliori saltatori del mondo, per cui era ricercato dai circhi più grandi. Sfatta la piccola compagnia, partito il figlio Giuseppe; partita la figlia Adelaide col consorte e il figlioletto loro, mamma Gigin aveva con lo stesso cuore di mamma vera accolti Gualberto e Italia. Mamma Gigin e papà Alessandro volevano davvero bene ai loro disgraziati nipotini, e tanto più che poveri piccoli erano rimasti senza mamma proprio nell’età in cui ne avevano assai bisogno; sentivano per ciò un particolare affetto che coscienziosamente avrebbe dato loro la forza anche nella vecchiaia di fare qualunque sacrificio per essi. I buoni vecchietti si guadagnavano la vita onestamente esercitando un tiro a segno e un banchetto di bevande ghiacciate e sapevano così giusto a regolare la vita, ormai resa esperta nel vero senso della parola, che il poco lo facevano bastare per molto; perciò facevano sempre bella figura, che mai nulla loro mancava essendo scrupolosamente provvidi. Papà Alessandro era un bell’uomo: alto e diritto come un fuso, slanciato, aveva due baffi all’Umberto, aveva una splendida capigliatura bianca; un colore bellissimo in volto lo rendeva piacente e simpatico in ogni aspetto. Il buon Alessandro aveva l’abitudine di alzarsi presto: al mattino era sempre lui che dava il buon giorno al sole al suo sorgere. Prima del caffè, il buon vecchio, in compagnia di un suo inseparabile cane, aveva già sempre fatti dai sei agli otto chilometri di strada a piedi per la campagna per respirarvi l’aria buona e salubre. Non era ozioso, ma molto laborioso. Mamma Gigin era una buona vecchietta che nella sua vita non ascoltava altra voce nel cuore, che quella del dovere e del bene per la sua famiglia. I due vecchietti si volevano un gran bene e si facevano davvero una intima e bella compagnia. Essi giravano il mondo proprio con gioiosa passione e, sebbene il girar del mondo è molto avventuroso essendovi dei momenti brutti, essi erano contenti del loro stato e perciò vivevano filosoficamente beati. Quando, specialmente, nella stagione cattiva, il tempo gramo il costringeva a stare ritirati in carovana e andare a letto presto, mamma Gigin metteva a letto i suoi nipotini e nel medesimo tempo raccontava loro qualche storiella fino a quando si fossero addormentati profondamente. Anche papà Alessandro, mentre faceva un onesta fumata con una lunga pipa di gesso, ascoltava sempre anche lui la storiella della nonna. E quando i bimbi s’erano addormentati, i due coniugi facevano qualche partita a tresette sin quando il sonno li consigliava di coricarsi. Insomma facevano una vita tranquilla da buoni cristiani, facendosi citare per modelli di onestà e di bene reciproco. Come già dissi, la vita girando il mondo, specialmente quando gli affari vanno bene, è assai attraente e divertente; ma purtroppo vi sono dei momenti brutti e avventurosi. Del ramo di mio nonno Alessandro, erano 4 fratelli. Alessandro, Giovanotto, Maurizio e Antonio e una sorella. Quasi tutti artisti da circo. Negli altri rami dei Niemen anticamente ci sono stati cantastorie, e anche chi andava nelle cascine fattorie a raccontare belle storie fiabesche. Perciò una volta le cascine fattorie erano popolate come piccoli villaggi. Nel mio ramo dei fratelli Niemen ci sono stati artisti famosi come saltatori, musicisti, pagliacci e altro. Mio nonno Alessandro si sa che quando nacque gli aveva fatto da padrino nel battesimo Camillo Cavour, che era andato a vedere il circo, e gli donò 5 monete d’oro da 100 lire, delle quali si potrebbe scrivere un brutto racconto a lieto fine…(
giuseppe cozzi
Di sicuro ci sarà sempre chi guarderà solo alla tecnica e si chiederà 'come', mentre altri di natura più curiosa si chiederanno 'perche'
Man Ray
Di sicuro ci sarà sempre chi guarderà solo alla tecnica e si chiederà 'come', mentre altri di natura più curiosa si chiederanno 'perche'
Man Ray
Re: Gualberto Niemen ed i suoi burattini..... una bella storia
Gualberto Niemen si racconta
Ora sentiamo dalla voce di Berto che si racconta a Cristina Boracchi.
Nel vedere la mole del lavoro e della fantasia anche di questi ultimi anni, viene davvero da chiedersi come siano potuti nascere tanta abilità artigiana ma soprattutto tanta sensibilità artistica.
Quale influsso ha avuto in tutto questo la famiglia di provenienza? Può definirsi «figlio
d’arte»?
Sono proprio contento che lei abbia sottolineato come l’essere burattinaio comporti non tanto, e non solo, un’abilità di tipo tecnico ma anche, e soprattutto, una componente artistica ed umana. Fare il burattinaio, voglio dire, è molto più che un lavoro: è una vocazione, è un’arte che si impara a poco a poco e che esige passione, spirito di sacrificio. In questo senso, allora, posso definirmi figlio d’arte. Del resto, sono nato da una coppia di artisti che, a loro volta, vantavano presenze significative nel mondo dello spettacolo da parte della propria famiglia d’origine.
Mio padre, Giuseppe, possedeva infatti un Circo – il Circo Niemen – nel quale lavorava anche la mamma, Virginia Caprani, da cui sono nato proprio io al seguito del Circo a Tronzano Vercellese il 6 agosto 1905. Fu dunque un caso nascere proprio lì, dove sostava il Circo, e forse fu un caso prendere quel nome, Gualberto: fu scelto dalle zie, che pure erano del mestiere e che si erano ispirate a uno dei protagonisti dello spettacolo teatrale “I figli di nessuno” che si rappresentava in quel paese. Non è certo un caso l’amore che ho provato tutta la vita per le luci, i colori, la fantasia degli spettacoli: molti sono stati, infatti, gli stimoli alla mia formazione. In primo luogo mio padre, la cui famiglia era nel Circo da 4 o 5 generazioni: ginnasta, attore, artista completo, ha convertito anche la mamma, che proveniva dall’ambiente del varietà e del caffè-concerto. La nonna materna poi era una Cavallini, della famosa famiglia Cavallini, del varietà. Anche lei girava con il marito, Luigi Caprani, con un teatro-tenda dove, con la figlia, recitava, cantava, ballava. Mia madre Virginia mori proprio in uno spettacolo: facendo brandeggio sul filo metallico, le scivolò un piede e cadde recidendosi l’arteria femorale: questa è la memoria più viva che ho di mia madre, morta quando avevo solo sei anni. Un amico zio, inoltre, Roberto Taiton, che aveva sposato la sorella di mia madre, Ella, mi ha molto ispirato: uomo di grande versatilità, era un po’ illusionista un po’ teatrante: ricordo, in particolare, una sua messinscena, come scenografo, ne “Il terremoto di Messina”.
Ma come e da chi ebbe lo stimolo ad occuparsi dei burattini?
Sicuramente dal circo ho ricevuto molto: soprattutto nei primi tempi, quando portavo nelle piazze spettacoli «a soggetto», ma anche dopo, quando avevo un canovaccio fisso o un copione, ho sempre sfruttato l’esperienza clownesca, degli scherzi e delle gags comiche. Animavo i burattini come fossero pagliacci, già da quando, giocando con i primi burattini regalati in una scatola da un cuginetto, mettevo in scena “Il terremoto di Messina”, come l’avevo visto a teatro, con anche il crollo delle case che avevo costruito con mattoni di cartapesta.
Ma non c’era, in famiglia, qualcuno che già praticava l’arte del burattinaio?
Sì, mio zio, Cesare Costa, che dapprima aveva un’attività nell’ambito circense, ma poi decise
di allestire un teatro di marionette e intraprese la professione di marionettista per il resto
della sua vita.
Anche suo zio intagliava le teste delle proprie marionette?
No, lui le comprava, come del resto facevano molti, allora. Vi era infatti una ditta torinese – ditta Bonini – che produceva le teste di burattini e di marionette. A Torino, poi, si potevano anche acquistare in un negozio dell’allora Piazza Vittorio, dove ora si trova un’area destinata al Luna Park.
A questo proposito: se dovesse dirci da chi ha imparato il mestiere, quali indicherebbe
come propri maestri?
Si può dire che ho imparato da tutti, ad iniziare dalle compagnie di burattinai che sin da piccolo
andavo a vedere quando il circo lo permetteva. Certamente ho imparato da mio zio, Cesare Costa, come pure dai fratelli Lupi, il cui Teatro Gianduja operava a Torino e dintorni, fornito di migliaia di marionette. Era per me un premio assistere ai suoi spettacoli, quando a scuola mi premiavano con una medaglietta, premio che mi permetteva di andarci gratis di giovedì. Ma a me piacevano di più gli spettacoli di burattini, specialmente quelli di Giacomo Canardi, forse il più bravo fra tutti i burattinai che ho conosciuto. Da lui ho imparato a costruire i burattini a bastone, con i quali potevo tenere in scena da solo più burattini. Era un uomo dotato di un grande senso teatrale: teneva spettacoli serali mentre di giorno faceva la comparsa alla Italo Film o all’Ambrogio Film, dove conosceva ed era amico di registi e scenografi.
Nell’alto Monferrato, poi, passavano i teatri dei Marengo, dei Concordia e dei Burzio: da questi
ultimi, e più specificatamente da Giuseppe, ho imparato a dipingere i fondali, gli scenari e il sipario. I miei però erano più apprezzati per la cura che mettevo nei particolari, non bastandomi gli effetti di luce o profondità.
Molte delle abilità che ha acquisito, però, sono anche frutto di una sua particolare predisposizione a questa forma d’arte?
Direi proprio di sì. Io infatti tendo a definirmi un autodidatta. Pensi che appena adolescente
mi allenavo ad intagliare «mani» con piccoli listelli di legno e già prima del servizio militare
intagliavo teste che poi venivano usate dai Concordia e da Nino Gambarutti, che spesso
aiutavo a tempo perso.
Giuseppe Gambarutti, fratello di Nino, lo incontrai invece a Sale Monferrato, dove aveva allestito il teatro di marionette accanto al Circo di mio padre: gli affari non gli andavano tanto bene, proprio per la vicinanza del circo che gli sottraeva i clienti. All’epoca approfittavo del riposo del circo per andare nei paesini più vicini a dare spettacoli di burattini, con 30/40 esemplari che avevo acquistato vicino a Carmagnola da uno stagnino: li avevo pagati solo 30 lire e non erano molto belli, ma a me parevano bellissimi. Bene, Giuseppe mi seguì, una volta, e rimase così sbalordito da quello che vide, dalla rapidità dell’allestimento del teatro, dall’abilità di tessere una storia elaborata anche con dei piccoli burattini, che da quel momento lasciò le marionette per dedicarsi agli spettacoli di burattini.
Ma lei, da solo, quando tenne il suo primo spettacolo?
Fu nell’agosto del 1921, a sedici anni, proprio a Torino durante una pausa del Circo. Non avevo ancora copioni scritti da me, ma recitavo a soggetto, seguendo un canovaccio dal titolo “Il nuovo Caino”, intessuto di gags, scherzi comici che conoscevo perché li imparavo al circo da
Clowns Poi venne il servizio militare a Bologna, tra il 1925 e il 1926.
Questo periodo a Bologna fu quindi un momento di pausa, durante il quale non poté
coltivare la sua passione?
No, anzi, essa maturò ancora di più, tanto che quando terminai il servizio – ero bersagliere –
lavorai per sei mesi ancora con mio padre, come ginnasta, acrobata, poi lo abbandonai del tutto: anche lui, alla fine, aveva capito che i miei interessi erano altrove.
In quel periodo, comunque, aiutavo Aldo Rizzoli durante le libere uscite e assistevo a tutti gli
spettacoli che potevo, e ce ne erano molte di compagnie a Bologna! Spesso, poi, preferivo non uscire neppure dalla caserma e mi fermavo a scrivere i miei copioni, fra cui ricordo quelli de “Il nuovo Caino”, di “Giuseppe Mistrilli, il brigante”, e di “Pia de’ Tolomei”.
Quando fece comunque «compagnia a sé», da professionista?
Nel 1927. Divenni libero professionista, con la licenza per l’«esercizio dei mestieri e traffici ambulanti». Era allora in carta libera, «per povertà del richiedente»: così c’era scritto. I vestiti me li confezionava una nipote, Santma Ferrarmo, la cui mamma, Maria Tambuto, era sorella di quella che sarebbe diventata mia moglie due anni dopo, Cleme (Clementina) Tambutto.
Tra il 1928 e il 1929, però, smisi la professione per fare il decoratore a Monte Valenza, da dove
andavo e venivo nel paese di mia moglie, cioè Rivalba di Valmacca. Ma non riuscivo a rimanere
lontano dai miei burattini, che continuavo a preferire alle marionette che pure mi ero costruito, per una «mania» durata per poco tempo. Qualche volta recitavo in filodrammatiche oratoriane, ma la passione era per la professione di burattinaio.
Dove svolse prevalentemente la sua attività?
Soprattutto nel Monferrato, nell’Alessandrino, nel Vercellese, nel Biellese ed anche in Lomellina. Giravo in bicicletta con il teatrino piccolo, di 3 metri, di paese in paese… da Sartirana a Valle Lomellina, da Candia a Mascarolo, Borgo Suardi e via di seguito. Questo sino al 1934, quando mi trasferii nel Varesotto.
Da dove venne questa decisione? Come mai scelse proprio il Varesotto?
Era il 1934. Mi giunse notizia che mia sorella, Italia che aveva con il marito Rinaldo Zanjretta
un piccolo circo a Casale Litta, non poteva più lavorare perché aveva subito un’operazione. L’andai a trovare, e capii che aveva bisogno di aiuto. Perciò, pur tenendo ancora casa a Rivalba, dal 1935 affittai un carro e traslocai con tutto, compresa la baracca di 3 mt. e una piccola arena di mt. 8x12 di lunghezza, che poteva ospitare 100 persone sedute. Io e mia moglie, nei nostri continui spostamenti, dormivamo nel casotto.
Continuò le sue recite anche nel Varesotto?
Certo. Nella primavera del 1935 ho portato il teatro a Coarezza, a Somma Lombardo, a Case Nuove, alla Maddalena: mi spostavo con un carro trainato da buoi o cavalli, preso in affitto, e mi seguiva la carovana di mia sorella. Poi sono andato a Inarzo, Bodio, Azzate, Venegono, Gorla, Vergiate,Fagnano, Cassano Magnago, Somma… mi ricordo ancora oggi tutte le piazze!
Qualche volta tornavo a Rivalba per vedere la casa, ma poi riprendevo gli spostamenti. Mia moglie era sempre vicina, una presenza costante che assecondava le mie scelte e mi dava anche una mano come cassiera. Nel ’36 il giro passò per Galliate, Varano, Biandronno, Bardello, Agrate, Cocquio, Brebbia, Cittiglio e infine Laveno, dove un ciclone, in settembre, distrusse il teatro, anzi è proprio il caso di dire che ruppe «baracca e burattini». Per fortuna rimaneva ancora la carovana di mia sorella!
È per questo che si è stabilito a Biandronno?
Sì, anche se, all’inizio, era solo per riparare il teatro presso la bottega di un falegname che vi
abitava.Nel frattempo rimasi a lavorare con mia sorella, che si era ristabilita, nel circoletto come ginnasta:pensi che saltavo 12 sedie senza pedana! Conobbi meglio la zona e mi piacque. Vendetti la casa di Rivalba e mi stabilii in un rustico. Era l’ottobre 1936. Intanto mi ricostruii l’arena con una baracca nuova di mt. 4x4.
Ha subìto altre modifiche la sua arena?
Nel 1947 la portai a mt. 12x18 di lunghezza. Era intelaiata, con la biglietteria, due ingressi e due uscite di sicurezza. Aveva 10 file di gradinate e 80 sedie. Nel ’52 la portai a mt. 15x18 e procurai una copertura di 90 mq., a schiena d’asino. La baracca la portai a mt. 6 di facciata. Ho utilizzato il padiglione sino all’ottobre del ’63, quando ho deciso di disfarmene perché troppo impegnativo. D’altro canto, mi rimaneva pur sempre la baracca di tre metri, che già allora usavo nei piccoli centri e al chiuso. Nelle stagioni estive piantavo l’arena nelle città e nei grossi paesi dove rimanevo normalmente oltre 20 giorni. Poi vi ripassavo ogni 4 o 5 anni. Nelle stagioni fredde e invernali agivo negli Oratori, nei circoli ricreativi e nei cinema con la baracca di tre metri di facciata, che a volte portavo in bicicletta sui portapacchi, assieme ai burattini.
E a Gallarate, quando è venuto?In quegli anni mi spostavo per lunghe stagioni a Varese, Rho, Luino, Busto e Gallarate. Gallarate la ricordo come una bella «piazza»: a partire dal 1949 ci sono venuto sia con il teatro grande, nell'ex Piazza d’Armi (1), sia con quello piccolo, nell’attuale Biblioteca Comunale. C’era sempre tanta gente ai miei spettacoli. Venivano sia gli adulti che i bambini, anzi erano più i primi ad accalcarsi per vedere i miei burattini e seguire le mie storie adatte soprattutto a loro. Un altro particolare mi fa amare Gallarate: fino al 1972, per le feste dell’Epifania, mi hanno sempre chiamato per tenere spettacoli al Circolo ferrovieri.
Dal ’36 al ’64, anno in cui ha interrotto l’attività come professionista, ha sempre lavorato da solo? Non proprio sempre. Nel 1951, ad esempio, ho lavorato in società con i Garda. Nella stessa sera loro davano spettacoli di marionette e io di burattini. Mia moglie faceva la cassiera al loro teatro e Fortunata Garda al mio.
Non è mai andato all’estero? Nel 1957 ho portato i burattini a Lugano. Ma non mi sono trovato bene, non ho voluto più tornarci, anche se richiesto da molti.
E dal ’64 in poi?
Nel giugno del ’64 ho ripreso l’attività di decoratore. Ma in realtà non ho mai smesso di dare spettacoli, anche se solo per i bambini di Istituti e scuole, a cui portavo qualche sorriso con le mie «recitucce ». Erano tutti a scopo benefico: per orfanelli, spastici… Ricordo i piccoli di Padre Beccaro e quelli del Cottolengo. E poi recitavo in Oratori. Nell’Epifania del 1966 ho recitato al Teatro Impero di Varese. Due recite le ho tenute anche qualche mese fa, nel periodo natalizio. E se non fosse per la vista che mi ha in parte abbandonato, avrei potuto fare tante belle cose ancora… Non per me ma per gli altri.
Racconti un po’ questi ultimi anni!
Ho partecipato a mostre, a premi anche di pittura. Nell’estate dell’80 sono stato chiamato ad allestire una mostra a Cuasso al Monte e nell’84 sono stato presente alla Mostra «Burattini e Burattinai del Varesotto» che ha toccato Sesto Calende, dove avevo montato anche la baracca, e diverse altre località della Provincia. Avrei poi voluto continuare a intagliare teste di burattini e dipingere fondali ma una malattia agli occhi, che non mi permette più di vedere bene, e la doverosa vicinanza alla mia sorella Italia, mancata nel marzo scorso, e alla cara moglie Cleme, venuta meno nel settembre ’87, hanno dapprima ridimensionato i progetti che avevo e poi li hanno praticamente troncati. Questo però non mi ha proibito, come ho già detto, di accogliere inviti di scolaresche e di rappresentare per loro ancora qualche commedia.
Lei è certamente un artista completo, perché oltre a scolpire le teste di legno e a dipingere
gli scenari, ha inventato i soggetti, scrivendo nei copioni. Ci ricorda quelli a lei più
cari? Quale l’ultimo scritto?
I miei copioni li ho ancora tutti, nonostante un incendio nel ’78 abbia distrutto molte copie originali. Solo uno non l’ho più, perché l’ho fatto scomparire io stesso. Era “La iena di S. Giorgio”, la storia di una leggenda del Canavese nella quale si raccontava di molte donne brutalmente uccise da un salumiere. In troppi venivano a vederlo... e io non volevo proporre una storia così tragica, poco edificante, anche se la facevo diventare un po’ commedia scherzosa con il lieto fine. In effetti, anche quando rappresentavo drammi – come quello bellissimo di Genoveffa – io ci mettevo sempre qualcosa della commedia, facendo parlare e animando sulla scena uno dei miei personaggi preferiti, Gianduja.
Tra le tante commedie ricordo “Rosina, pazza per amore”; “Gianduja spia finto sordomuto, ovvero il bastardo di Carlo V”; “La storia d’la vaca rusa”; “Gianduja e Testafina dottori in medicina”
E ancora, i copioni ispirati a opere: “Il sepolto vivo” (da “I Masnadieri”) o “Pia de’ Tolomei”. Anche se scrivevo i copioni, io ho sempre lasciato spazio all’improvvisazione del momento, come quando recitavo “Il nuovo Caino” su semplice canovaccio, nei primi anni. E questo vale anche per il mio ultimo scritto: “La fata buona e il mago cattivo”, recentissimo, ma già abbozzato nel febbraio dell’81.
Che lei sappia, i suoi copioni sono ancora rappresentati oggi? Se sì, da quali Compagnie
e con quale frequenza?
Oggi rappresentano i miei copioni molto più di prima. Fino al 1940 li rappresentavano la mia
Compagnia, quella di Clelio Niemen, di Enzo Busnelli e di altri. Oggi ci sono sette o otto Compagnie che rappresentano le mie storie. Alcune sono dei miei lontani cugini, come Carlo Niemen, Armando Niemen, Leo Clelio Niemen, Bruno Niemen… Altre invece sono quelle di Maurizio Medini, Domenico Baldi e così via. Questo mi rende davvero molto contento(2).
Fra i suoi personaggi, a quali è più affezionato e perché?
Quello che amo di più è Testafina. L’ho creato io, nel 1921, e rappresenta l’uomo di buon carattere, ottimista nei confronti della vita, che sa prendere con filosofia. Sempre contento, sa dire «…per fortuna sono solo quattro legnate, potevano essere otto» e «…se ti arrabbi fa più male…». Forse lo amo perché rappresenta quello che un po’ sono e un po’ vorrei essere, cioè sempre felice e spensierato… invece sono triste, e mi commuovo facilmente. Del resto, c’è sempre qualcosa di me nei miei burattini… anch’io ridevo e piangevo con loro, e ancora oggi ci parlo! Mi piace anche Capitan Bobò, che vuol fare il cattivo ma è buono… è un burbero benefico, come me. Poi Genoveffa, personaggio molto amato e forse invidiatomi dai Canardi! Il Conte Golo, il mago Armidolfolofobil e cosi via. Insomma, ho cercato sempre di mettere una briciola di bontà in tutti i miei personaggi.
E fra quelli non suoi, quale ama maggiormente?
Sicuramente Gianduja, forse perché è il protagonista, la« macchietta» di tutti i canovacci, compresi i drammi. Anche lui è buono ed è sempre impegnato a difendere i deboli. Era il più amato da tutti: a Gallarate, dopo una recita, in centinaia si sono rovesciati a baciarlo, con le lacrime agli occhi! A lui, del resto, era intitolato il mio teatrino.
I suoi burattini sono tutti di legno?
Quasi tutti. Però ho costruito anche personaggi con la tecnica della cartapesta: ad esempio alcuni animali come il coccodrillo e dei leoni.
Pensa che l’attività del burattinaio sia oggi destinata a scomparire?
No, assolutamente! Ancora oggi gli spettatori sono tanti e vanno in visibilio per i burattini! Del resto, i bambini di oggi non sono diversi da quelli di ieri… e forse neppure gli adulti, per il cui sano divertimento ho lavorato tutti questi anni.
Chi ha imparato da lei il mestiere o ha utilizzato suo materiale?
Sì, tanti hanno davvero imparato da me qualcosa, a iniziare dai Concordia e dai Gambarutti, che utilizzavano diverse teste intagliate da me. Giuseppe Gambarutti ha anche imparato da me a manovrare i burattini e una decina d’anni fa un giovane ha iniziato i primi passi proprio con me: Enrico Colombo, che poi ha fondato il «Teatro dei Burattini di Varese». Anche un signore di Biandronno, Fernando Della Chiesa, utilizza materiale costruito da me per spettacoli benefici. Carlo Niemen usa oggi i miei burattini nei suoi spettacoli: a lui ho dato anche diversi fondali. Anche Leo Clelio Niemen, un tempo con il Circo Orfei, è ora burattinaio e utilizza miei burattini. Ma un po’ tutti i Niemen, Leo Clelio, Carlo, Cleto, hanno preso qualcosa da me perché, da bambini, venivano sempre ai miei spettacoli.
Se dovesse elencare le qualità di un burattinaio, o le abilità principali per esserlo, cosa
indicherebbe?
Prima di tutto, una voce gradevole, duttile, che non stanchi e sappia assumere diverse tonalità. Io mi allenavo passeggiando, prima degli spettacoli, specialmente quando dovevo fare chilometri a piedi per comperare il carburo con cui illuminare con l’acetilene il teatro.Poi, sapere dipingere, intagliare il legno, lavorare la cartapesta, inventare storie… Ma, soprattutto, sentirsi sempre un po’ bambini, e riuscire, con i propri buoni sentimenti, a commuovere la gente, facendola andar via sempre un po’ più buona!
Ora sentiamo dalla voce di Berto che si racconta a Cristina Boracchi.
Nel vedere la mole del lavoro e della fantasia anche di questi ultimi anni, viene davvero da chiedersi come siano potuti nascere tanta abilità artigiana ma soprattutto tanta sensibilità artistica.
Quale influsso ha avuto in tutto questo la famiglia di provenienza? Può definirsi «figlio
d’arte»?
Sono proprio contento che lei abbia sottolineato come l’essere burattinaio comporti non tanto, e non solo, un’abilità di tipo tecnico ma anche, e soprattutto, una componente artistica ed umana. Fare il burattinaio, voglio dire, è molto più che un lavoro: è una vocazione, è un’arte che si impara a poco a poco e che esige passione, spirito di sacrificio. In questo senso, allora, posso definirmi figlio d’arte. Del resto, sono nato da una coppia di artisti che, a loro volta, vantavano presenze significative nel mondo dello spettacolo da parte della propria famiglia d’origine.
Mio padre, Giuseppe, possedeva infatti un Circo – il Circo Niemen – nel quale lavorava anche la mamma, Virginia Caprani, da cui sono nato proprio io al seguito del Circo a Tronzano Vercellese il 6 agosto 1905. Fu dunque un caso nascere proprio lì, dove sostava il Circo, e forse fu un caso prendere quel nome, Gualberto: fu scelto dalle zie, che pure erano del mestiere e che si erano ispirate a uno dei protagonisti dello spettacolo teatrale “I figli di nessuno” che si rappresentava in quel paese. Non è certo un caso l’amore che ho provato tutta la vita per le luci, i colori, la fantasia degli spettacoli: molti sono stati, infatti, gli stimoli alla mia formazione. In primo luogo mio padre, la cui famiglia era nel Circo da 4 o 5 generazioni: ginnasta, attore, artista completo, ha convertito anche la mamma, che proveniva dall’ambiente del varietà e del caffè-concerto. La nonna materna poi era una Cavallini, della famosa famiglia Cavallini, del varietà. Anche lei girava con il marito, Luigi Caprani, con un teatro-tenda dove, con la figlia, recitava, cantava, ballava. Mia madre Virginia mori proprio in uno spettacolo: facendo brandeggio sul filo metallico, le scivolò un piede e cadde recidendosi l’arteria femorale: questa è la memoria più viva che ho di mia madre, morta quando avevo solo sei anni. Un amico zio, inoltre, Roberto Taiton, che aveva sposato la sorella di mia madre, Ella, mi ha molto ispirato: uomo di grande versatilità, era un po’ illusionista un po’ teatrante: ricordo, in particolare, una sua messinscena, come scenografo, ne “Il terremoto di Messina”.
Ma come e da chi ebbe lo stimolo ad occuparsi dei burattini?
Sicuramente dal circo ho ricevuto molto: soprattutto nei primi tempi, quando portavo nelle piazze spettacoli «a soggetto», ma anche dopo, quando avevo un canovaccio fisso o un copione, ho sempre sfruttato l’esperienza clownesca, degli scherzi e delle gags comiche. Animavo i burattini come fossero pagliacci, già da quando, giocando con i primi burattini regalati in una scatola da un cuginetto, mettevo in scena “Il terremoto di Messina”, come l’avevo visto a teatro, con anche il crollo delle case che avevo costruito con mattoni di cartapesta.
Ma non c’era, in famiglia, qualcuno che già praticava l’arte del burattinaio?
Sì, mio zio, Cesare Costa, che dapprima aveva un’attività nell’ambito circense, ma poi decise
di allestire un teatro di marionette e intraprese la professione di marionettista per il resto
della sua vita.
Anche suo zio intagliava le teste delle proprie marionette?
No, lui le comprava, come del resto facevano molti, allora. Vi era infatti una ditta torinese – ditta Bonini – che produceva le teste di burattini e di marionette. A Torino, poi, si potevano anche acquistare in un negozio dell’allora Piazza Vittorio, dove ora si trova un’area destinata al Luna Park.
A questo proposito: se dovesse dirci da chi ha imparato il mestiere, quali indicherebbe
come propri maestri?
Si può dire che ho imparato da tutti, ad iniziare dalle compagnie di burattinai che sin da piccolo
andavo a vedere quando il circo lo permetteva. Certamente ho imparato da mio zio, Cesare Costa, come pure dai fratelli Lupi, il cui Teatro Gianduja operava a Torino e dintorni, fornito di migliaia di marionette. Era per me un premio assistere ai suoi spettacoli, quando a scuola mi premiavano con una medaglietta, premio che mi permetteva di andarci gratis di giovedì. Ma a me piacevano di più gli spettacoli di burattini, specialmente quelli di Giacomo Canardi, forse il più bravo fra tutti i burattinai che ho conosciuto. Da lui ho imparato a costruire i burattini a bastone, con i quali potevo tenere in scena da solo più burattini. Era un uomo dotato di un grande senso teatrale: teneva spettacoli serali mentre di giorno faceva la comparsa alla Italo Film o all’Ambrogio Film, dove conosceva ed era amico di registi e scenografi.
Nell’alto Monferrato, poi, passavano i teatri dei Marengo, dei Concordia e dei Burzio: da questi
ultimi, e più specificatamente da Giuseppe, ho imparato a dipingere i fondali, gli scenari e il sipario. I miei però erano più apprezzati per la cura che mettevo nei particolari, non bastandomi gli effetti di luce o profondità.
Molte delle abilità che ha acquisito, però, sono anche frutto di una sua particolare predisposizione a questa forma d’arte?
Direi proprio di sì. Io infatti tendo a definirmi un autodidatta. Pensi che appena adolescente
mi allenavo ad intagliare «mani» con piccoli listelli di legno e già prima del servizio militare
intagliavo teste che poi venivano usate dai Concordia e da Nino Gambarutti, che spesso
aiutavo a tempo perso.
Giuseppe Gambarutti, fratello di Nino, lo incontrai invece a Sale Monferrato, dove aveva allestito il teatro di marionette accanto al Circo di mio padre: gli affari non gli andavano tanto bene, proprio per la vicinanza del circo che gli sottraeva i clienti. All’epoca approfittavo del riposo del circo per andare nei paesini più vicini a dare spettacoli di burattini, con 30/40 esemplari che avevo acquistato vicino a Carmagnola da uno stagnino: li avevo pagati solo 30 lire e non erano molto belli, ma a me parevano bellissimi. Bene, Giuseppe mi seguì, una volta, e rimase così sbalordito da quello che vide, dalla rapidità dell’allestimento del teatro, dall’abilità di tessere una storia elaborata anche con dei piccoli burattini, che da quel momento lasciò le marionette per dedicarsi agli spettacoli di burattini.
Ma lei, da solo, quando tenne il suo primo spettacolo?
Fu nell’agosto del 1921, a sedici anni, proprio a Torino durante una pausa del Circo. Non avevo ancora copioni scritti da me, ma recitavo a soggetto, seguendo un canovaccio dal titolo “Il nuovo Caino”, intessuto di gags, scherzi comici che conoscevo perché li imparavo al circo da
Clowns Poi venne il servizio militare a Bologna, tra il 1925 e il 1926.
Questo periodo a Bologna fu quindi un momento di pausa, durante il quale non poté
coltivare la sua passione?
No, anzi, essa maturò ancora di più, tanto che quando terminai il servizio – ero bersagliere –
lavorai per sei mesi ancora con mio padre, come ginnasta, acrobata, poi lo abbandonai del tutto: anche lui, alla fine, aveva capito che i miei interessi erano altrove.
In quel periodo, comunque, aiutavo Aldo Rizzoli durante le libere uscite e assistevo a tutti gli
spettacoli che potevo, e ce ne erano molte di compagnie a Bologna! Spesso, poi, preferivo non uscire neppure dalla caserma e mi fermavo a scrivere i miei copioni, fra cui ricordo quelli de “Il nuovo Caino”, di “Giuseppe Mistrilli, il brigante”, e di “Pia de’ Tolomei”.
Quando fece comunque «compagnia a sé», da professionista?
Nel 1927. Divenni libero professionista, con la licenza per l’«esercizio dei mestieri e traffici ambulanti». Era allora in carta libera, «per povertà del richiedente»: così c’era scritto. I vestiti me li confezionava una nipote, Santma Ferrarmo, la cui mamma, Maria Tambuto, era sorella di quella che sarebbe diventata mia moglie due anni dopo, Cleme (Clementina) Tambutto.
Tra il 1928 e il 1929, però, smisi la professione per fare il decoratore a Monte Valenza, da dove
andavo e venivo nel paese di mia moglie, cioè Rivalba di Valmacca. Ma non riuscivo a rimanere
lontano dai miei burattini, che continuavo a preferire alle marionette che pure mi ero costruito, per una «mania» durata per poco tempo. Qualche volta recitavo in filodrammatiche oratoriane, ma la passione era per la professione di burattinaio.
Dove svolse prevalentemente la sua attività?
Soprattutto nel Monferrato, nell’Alessandrino, nel Vercellese, nel Biellese ed anche in Lomellina. Giravo in bicicletta con il teatrino piccolo, di 3 metri, di paese in paese… da Sartirana a Valle Lomellina, da Candia a Mascarolo, Borgo Suardi e via di seguito. Questo sino al 1934, quando mi trasferii nel Varesotto.
Da dove venne questa decisione? Come mai scelse proprio il Varesotto?
Era il 1934. Mi giunse notizia che mia sorella, Italia che aveva con il marito Rinaldo Zanjretta
un piccolo circo a Casale Litta, non poteva più lavorare perché aveva subito un’operazione. L’andai a trovare, e capii che aveva bisogno di aiuto. Perciò, pur tenendo ancora casa a Rivalba, dal 1935 affittai un carro e traslocai con tutto, compresa la baracca di 3 mt. e una piccola arena di mt. 8x12 di lunghezza, che poteva ospitare 100 persone sedute. Io e mia moglie, nei nostri continui spostamenti, dormivamo nel casotto.
Continuò le sue recite anche nel Varesotto?
Certo. Nella primavera del 1935 ho portato il teatro a Coarezza, a Somma Lombardo, a Case Nuove, alla Maddalena: mi spostavo con un carro trainato da buoi o cavalli, preso in affitto, e mi seguiva la carovana di mia sorella. Poi sono andato a Inarzo, Bodio, Azzate, Venegono, Gorla, Vergiate,Fagnano, Cassano Magnago, Somma… mi ricordo ancora oggi tutte le piazze!
Qualche volta tornavo a Rivalba per vedere la casa, ma poi riprendevo gli spostamenti. Mia moglie era sempre vicina, una presenza costante che assecondava le mie scelte e mi dava anche una mano come cassiera. Nel ’36 il giro passò per Galliate, Varano, Biandronno, Bardello, Agrate, Cocquio, Brebbia, Cittiglio e infine Laveno, dove un ciclone, in settembre, distrusse il teatro, anzi è proprio il caso di dire che ruppe «baracca e burattini». Per fortuna rimaneva ancora la carovana di mia sorella!
È per questo che si è stabilito a Biandronno?
Sì, anche se, all’inizio, era solo per riparare il teatro presso la bottega di un falegname che vi
abitava.Nel frattempo rimasi a lavorare con mia sorella, che si era ristabilita, nel circoletto come ginnasta:pensi che saltavo 12 sedie senza pedana! Conobbi meglio la zona e mi piacque. Vendetti la casa di Rivalba e mi stabilii in un rustico. Era l’ottobre 1936. Intanto mi ricostruii l’arena con una baracca nuova di mt. 4x4.
Ha subìto altre modifiche la sua arena?
Nel 1947 la portai a mt. 12x18 di lunghezza. Era intelaiata, con la biglietteria, due ingressi e due uscite di sicurezza. Aveva 10 file di gradinate e 80 sedie. Nel ’52 la portai a mt. 15x18 e procurai una copertura di 90 mq., a schiena d’asino. La baracca la portai a mt. 6 di facciata. Ho utilizzato il padiglione sino all’ottobre del ’63, quando ho deciso di disfarmene perché troppo impegnativo. D’altro canto, mi rimaneva pur sempre la baracca di tre metri, che già allora usavo nei piccoli centri e al chiuso. Nelle stagioni estive piantavo l’arena nelle città e nei grossi paesi dove rimanevo normalmente oltre 20 giorni. Poi vi ripassavo ogni 4 o 5 anni. Nelle stagioni fredde e invernali agivo negli Oratori, nei circoli ricreativi e nei cinema con la baracca di tre metri di facciata, che a volte portavo in bicicletta sui portapacchi, assieme ai burattini.
E a Gallarate, quando è venuto?In quegli anni mi spostavo per lunghe stagioni a Varese, Rho, Luino, Busto e Gallarate. Gallarate la ricordo come una bella «piazza»: a partire dal 1949 ci sono venuto sia con il teatro grande, nell'ex Piazza d’Armi (1), sia con quello piccolo, nell’attuale Biblioteca Comunale. C’era sempre tanta gente ai miei spettacoli. Venivano sia gli adulti che i bambini, anzi erano più i primi ad accalcarsi per vedere i miei burattini e seguire le mie storie adatte soprattutto a loro. Un altro particolare mi fa amare Gallarate: fino al 1972, per le feste dell’Epifania, mi hanno sempre chiamato per tenere spettacoli al Circolo ferrovieri.
Dal ’36 al ’64, anno in cui ha interrotto l’attività come professionista, ha sempre lavorato da solo? Non proprio sempre. Nel 1951, ad esempio, ho lavorato in società con i Garda. Nella stessa sera loro davano spettacoli di marionette e io di burattini. Mia moglie faceva la cassiera al loro teatro e Fortunata Garda al mio.
Non è mai andato all’estero? Nel 1957 ho portato i burattini a Lugano. Ma non mi sono trovato bene, non ho voluto più tornarci, anche se richiesto da molti.
E dal ’64 in poi?
Nel giugno del ’64 ho ripreso l’attività di decoratore. Ma in realtà non ho mai smesso di dare spettacoli, anche se solo per i bambini di Istituti e scuole, a cui portavo qualche sorriso con le mie «recitucce ». Erano tutti a scopo benefico: per orfanelli, spastici… Ricordo i piccoli di Padre Beccaro e quelli del Cottolengo. E poi recitavo in Oratori. Nell’Epifania del 1966 ho recitato al Teatro Impero di Varese. Due recite le ho tenute anche qualche mese fa, nel periodo natalizio. E se non fosse per la vista che mi ha in parte abbandonato, avrei potuto fare tante belle cose ancora… Non per me ma per gli altri.
Racconti un po’ questi ultimi anni!
Ho partecipato a mostre, a premi anche di pittura. Nell’estate dell’80 sono stato chiamato ad allestire una mostra a Cuasso al Monte e nell’84 sono stato presente alla Mostra «Burattini e Burattinai del Varesotto» che ha toccato Sesto Calende, dove avevo montato anche la baracca, e diverse altre località della Provincia. Avrei poi voluto continuare a intagliare teste di burattini e dipingere fondali ma una malattia agli occhi, che non mi permette più di vedere bene, e la doverosa vicinanza alla mia sorella Italia, mancata nel marzo scorso, e alla cara moglie Cleme, venuta meno nel settembre ’87, hanno dapprima ridimensionato i progetti che avevo e poi li hanno praticamente troncati. Questo però non mi ha proibito, come ho già detto, di accogliere inviti di scolaresche e di rappresentare per loro ancora qualche commedia.
Lei è certamente un artista completo, perché oltre a scolpire le teste di legno e a dipingere
gli scenari, ha inventato i soggetti, scrivendo nei copioni. Ci ricorda quelli a lei più
cari? Quale l’ultimo scritto?
I miei copioni li ho ancora tutti, nonostante un incendio nel ’78 abbia distrutto molte copie originali. Solo uno non l’ho più, perché l’ho fatto scomparire io stesso. Era “La iena di S. Giorgio”, la storia di una leggenda del Canavese nella quale si raccontava di molte donne brutalmente uccise da un salumiere. In troppi venivano a vederlo... e io non volevo proporre una storia così tragica, poco edificante, anche se la facevo diventare un po’ commedia scherzosa con il lieto fine. In effetti, anche quando rappresentavo drammi – come quello bellissimo di Genoveffa – io ci mettevo sempre qualcosa della commedia, facendo parlare e animando sulla scena uno dei miei personaggi preferiti, Gianduja.
Tra le tante commedie ricordo “Rosina, pazza per amore”; “Gianduja spia finto sordomuto, ovvero il bastardo di Carlo V”; “La storia d’la vaca rusa”; “Gianduja e Testafina dottori in medicina”
E ancora, i copioni ispirati a opere: “Il sepolto vivo” (da “I Masnadieri”) o “Pia de’ Tolomei”. Anche se scrivevo i copioni, io ho sempre lasciato spazio all’improvvisazione del momento, come quando recitavo “Il nuovo Caino” su semplice canovaccio, nei primi anni. E questo vale anche per il mio ultimo scritto: “La fata buona e il mago cattivo”, recentissimo, ma già abbozzato nel febbraio dell’81.
Che lei sappia, i suoi copioni sono ancora rappresentati oggi? Se sì, da quali Compagnie
e con quale frequenza?
Oggi rappresentano i miei copioni molto più di prima. Fino al 1940 li rappresentavano la mia
Compagnia, quella di Clelio Niemen, di Enzo Busnelli e di altri. Oggi ci sono sette o otto Compagnie che rappresentano le mie storie. Alcune sono dei miei lontani cugini, come Carlo Niemen, Armando Niemen, Leo Clelio Niemen, Bruno Niemen… Altre invece sono quelle di Maurizio Medini, Domenico Baldi e così via. Questo mi rende davvero molto contento(2).
Fra i suoi personaggi, a quali è più affezionato e perché?
Quello che amo di più è Testafina. L’ho creato io, nel 1921, e rappresenta l’uomo di buon carattere, ottimista nei confronti della vita, che sa prendere con filosofia. Sempre contento, sa dire «…per fortuna sono solo quattro legnate, potevano essere otto» e «…se ti arrabbi fa più male…». Forse lo amo perché rappresenta quello che un po’ sono e un po’ vorrei essere, cioè sempre felice e spensierato… invece sono triste, e mi commuovo facilmente. Del resto, c’è sempre qualcosa di me nei miei burattini… anch’io ridevo e piangevo con loro, e ancora oggi ci parlo! Mi piace anche Capitan Bobò, che vuol fare il cattivo ma è buono… è un burbero benefico, come me. Poi Genoveffa, personaggio molto amato e forse invidiatomi dai Canardi! Il Conte Golo, il mago Armidolfolofobil e cosi via. Insomma, ho cercato sempre di mettere una briciola di bontà in tutti i miei personaggi.
E fra quelli non suoi, quale ama maggiormente?
Sicuramente Gianduja, forse perché è il protagonista, la« macchietta» di tutti i canovacci, compresi i drammi. Anche lui è buono ed è sempre impegnato a difendere i deboli. Era il più amato da tutti: a Gallarate, dopo una recita, in centinaia si sono rovesciati a baciarlo, con le lacrime agli occhi! A lui, del resto, era intitolato il mio teatrino.
I suoi burattini sono tutti di legno?
Quasi tutti. Però ho costruito anche personaggi con la tecnica della cartapesta: ad esempio alcuni animali come il coccodrillo e dei leoni.
Pensa che l’attività del burattinaio sia oggi destinata a scomparire?
No, assolutamente! Ancora oggi gli spettatori sono tanti e vanno in visibilio per i burattini! Del resto, i bambini di oggi non sono diversi da quelli di ieri… e forse neppure gli adulti, per il cui sano divertimento ho lavorato tutti questi anni.
Chi ha imparato da lei il mestiere o ha utilizzato suo materiale?
Sì, tanti hanno davvero imparato da me qualcosa, a iniziare dai Concordia e dai Gambarutti, che utilizzavano diverse teste intagliate da me. Giuseppe Gambarutti ha anche imparato da me a manovrare i burattini e una decina d’anni fa un giovane ha iniziato i primi passi proprio con me: Enrico Colombo, che poi ha fondato il «Teatro dei Burattini di Varese». Anche un signore di Biandronno, Fernando Della Chiesa, utilizza materiale costruito da me per spettacoli benefici. Carlo Niemen usa oggi i miei burattini nei suoi spettacoli: a lui ho dato anche diversi fondali. Anche Leo Clelio Niemen, un tempo con il Circo Orfei, è ora burattinaio e utilizza miei burattini. Ma un po’ tutti i Niemen, Leo Clelio, Carlo, Cleto, hanno preso qualcosa da me perché, da bambini, venivano sempre ai miei spettacoli.
Se dovesse elencare le qualità di un burattinaio, o le abilità principali per esserlo, cosa
indicherebbe?
Prima di tutto, una voce gradevole, duttile, che non stanchi e sappia assumere diverse tonalità. Io mi allenavo passeggiando, prima degli spettacoli, specialmente quando dovevo fare chilometri a piedi per comperare il carburo con cui illuminare con l’acetilene il teatro.Poi, sapere dipingere, intagliare il legno, lavorare la cartapesta, inventare storie… Ma, soprattutto, sentirsi sempre un po’ bambini, e riuscire, con i propri buoni sentimenti, a commuovere la gente, facendola andar via sempre un po’ più buona!
giuseppe cozzi
Di sicuro ci sarà sempre chi guarderà solo alla tecnica e si chiederà 'come', mentre altri di natura più curiosa si chiederanno 'perche'
Man Ray
Di sicuro ci sarà sempre chi guarderà solo alla tecnica e si chiederà 'come', mentre altri di natura più curiosa si chiederanno 'perche'
Man Ray
Re: Gualberto Niemen ed i suoi burattini..... una bella storia
LE FAVOLE E IL SUO BURATTINAIO: GUALBERTO NIEMEN
Èstato il primo attore durante la serata di presentazione del volume che lo vedeva protagonista nella Sala Convegni della Provincia, alla presenza dell’assessore alla cultura Cristina Scolari, del sindaco di Biandronno, Augusto Vanetti, del curatore del testo Pietro Porta, di Gianpaolo Bovone dell’associazione Peppino Sarina di Tortona. Non poteva essere altrimenti, se si considera che la sua vita è un tutt’uno con il teatro dei burattini e che, come ha scritto Guido Ceronetti, la sua condizione è paragonabile all’“inverno estremo, senza ghiacci, di un’esistenza che perfino Sofocle ammetterebbe felice Il sogno lo ha protetto con ali angeliche, e il mondo esterno lo sfiora appena, non può varcare la soglia ben difesa dai suoi legnosi fantasmi”. Lo sa bene chi frequenta la casa di Gualberto Niemen, che ha il sapore di un laboratorio dove tutto è predisposto per dare il via a quell’atto di fervida fantasia che è la creazione di un burattino. Dalle sgorbie, ai pennelli, ai colori. È, quindi, con grande piacere e avidità che si comincia a sfogliare il volume “Autobiografia di un burattinaio”, la sua autobiografia, voluta dai “quaderni dell’associazione Peppino Sarina, monografie”, e alla quale hanno contribuito in molti: dalla Provincia di Varese, a quella di Alessandria, a quella di Vercelli, al Comune di Biandronno, al centro per lo studio e la documentazione delle SOMS delle Province d’Alessandria e d’Asti, mentre il patronato è stato dato dalla Fondazione Archivio Diaristico Nazionale, da “Il Cantastorie”, rivista di tradizioni popolari a cura dell’Associazione “il Treppo”, e dall’Università
dei Burattini. Già la foto di copertina è emblematica nel cogliere un momento abituale della vita del Niemen.Chino su un foglio di carta dove ha appena tracciato le righe per “andare dritto”, – la precisione e la minuziosità sono una peculiarità della sua vita – scrive con una grafia chiara, bella, le sue memorie. Ogni espressione è meditata, mai corretta. È un rito che richiede silenzio, la mano chiusa sul foglio, mentre le parole sono come magici segni per imprimere i pezzi del mosaico prezioso di un’esistenza pregna di tanta vitalità e di uno scenario antico quanto la Commedia dell’ Arte. Escono dalla penna lente, pensate, e lui le guarda soddisfatto, a loro grato di avere reso appieno sulla carta i suoi ricordi. Inesauribili, palpitanti, colorati. “Papa Giovanni, cosa mangeremo in questi giorni noi che non lavoriamo per le tue onoranze al cordoglio?”, si chiese nel ’63 a Ternate, subito dopo la notizia del decesso del pontefice, che significava per lui un periodo di inattività. “Ma immediatamente – come scrive il Porta – il Santo Padre, dopo la suspence, gli fa trovare una bella lepre stecchita sul cofano dell’auto. Cose, fatti, persone, animali diventano motivo di una narrazione che nelle figure del teatro animato trovano ineccepibili referenti. Gianduja e Testafina, le maschere privilegiate di Niemen (le principali altre sono Brighella, Tartaglia, Capitan Bobò e Battista), svolgono non di rado una funzione di protagonisti a tutti gli effetti, chiamati in causa, fuori di scena, direttamente dal narratore. Sono poche ma assai decisive, ad esempio, le volte in cui Gualberto, reso disperato da ristrettezze economiche o da congiunture familiari, chiede direttamente soccorso all’amato Gianduja; e la maschera, coinvolta nel gioco di finzione, si adegua e fa la sua parte: “Mi sun bituvà a nen mangè, ma ti ch’et mangi pensa ti cosa chet poli fé par ciapé n’poch at sol per mangè…” (“Io sono abituato a non mangiare, ma tu che mangi pensa a ciò che puoi fare per guadagnare qualche soldo per mangiare”). Quando termina di scrivere, Gualberto ti guarda con un candore disarmante, poi ti fissa direttamente negli occhi per capire se tu sei partecipe delle sue esperienze. Sa che sono esperienze di un mondo che non è più, come quando racconta che negli anni ’30 ha dovuto raggiungere Casale Monferrato in bicicletta, sulla neve, con i legni che formavano il suo teatro sulle spalle. In perfetto equilibrio per chilometri e chilometri, se si considera che era partito dai nostri paesi. Il tutto gli era costato un rimprovero del Podestà per un’ora di ritardo, subito, però ricompensata con gli scroscianti applausi del pubblico dopo la rappresentazione. Grande merito a Porta che ha curato questa autobiografia. Da abituale frequentatore di casa Niemen, conosce le più recondite sfumature del burattino e della sua arte e solo uno come lui poteva dar origine a questo testo godibile, sapiente, umano. Un pezzo di storia del teatro dei burattini, con tutte le connotazioni dei secoli passati.
Federica Lucchini
(Tratto da “La Gazzetta di Biandronno”, n. 1, 2001)
STORIA DI UN BURATTINO
C’era una volta un pezzo di legno. Non era un legno di lusso, ma un semplice pezzo di catasta, di quelli che in inverno si mettono nelle stufe e nei caminetti per accendere il fuoco e riscaldare le stanze. Non so come andasse, ma il fatto gli è che un bel giorno questo pezzo di legno capitò nella bottega di un vecchio falegname, il quale aveva nome mastr’Antonio, se non che tutti lo chiamavano mastro Ciliegia, per via della punta del suo naso, che era sempre lustra e paonazza, come una ciliegia matura.
L’incipit de Le avventure di Pinocchio, con la sua freschezza e la sua poesia, può dare lo spunto per far scaturire una storia tutta biandronnese, che avrebbe gli ingredienti per interessarci e renderci orgogliosi. Potrebbe cominciare così: C’era una volta (o meglio, la data potrebbe essere il 1921)
un pezzo di legno di cirmolo. Uno di quei bei pezzi di legno che sembrano invitare ad essere lavorati. Era posto sopra un tavolo di un burattinaio sedicenne che, nato da una famiglia circense, aveva lo spettacolo nel sangue e guardava estasiato lo zio Cesare Costa manovrare con grande abilità le marionette e i burattini. Aveva una gran voglia di crearsene uno tutto suo, che fosse di buon carattere, ottimista e che sapesse prendere con filosofia la vita. Insomma, come era lui, o meglio, un suo alter ego. Così a grandi colpi cominciò a squadrarlo con la scure; terminata questa operazione, lo inserì nella morsa dove con una mazzetta di legno picchiò un po’ sugli scalpelli e un po’ sulle sgorbie da intagliatori. Ora tutto era pronto per iniziare a scolpire la fronte. Doveva essere abbastanza alta, liscia, perché una persona serena non può avere la fronte corrugata. Poi era la volta di evidenziare il naso ampio, con piccole narici, una bocca con una dentatura forte, aperta ad un sorriso solare. E gli occhi? Grandi, che sprizzassero gioia. Il bello è che a mano a mano procedeva il lavoro, il burattino, a differenza di Pinocchio, non diceva “Ohi! tu m’hai fatto male!”, ma sorrideva felice di venire al mondo, grato al suo inventore del dono della vita. Quando poi fu terminato, il giovane burattinaio dedicò grande cura nella stesura dei colori: vivaci, luminosi che sapessero trasmettere l’armonia, la serenità, l’arguzia del suo burattino. Fu grande feeling tra i due, quasi complementari; quindi ci voleva un nome che desse l’idea della natura del personaggio. Il burattinaio ci mise un po’ di tempo. Pensa e ripensa finalmente una notte ebbe un’illuminazione: Testafina, un nome sottile e nello stesso tempo arguto. E il burattino contento cominciò a dire, avvicinandosi a quello che sarebbe divenuto il socio di una vita, cioè Gianduja: “Oh, come sono contento, sono proprio contento! Se ti arrabbi fa più male!”. Il burattinaio guardava felice la sua creatura, era proprio quello che voleva egli fosse. E a differenza di Collodi che, una volta inventata la sua creatura spesso la dimenticava, lasciando le puntate delle sue avventure interrotte, il nostro burattinaio si dava da fare per far conoscere il suo Testafina, vestito con una giacca verde, una camicia e un papillon. E si dava da fare anche perché la sua voce fosse gradevole, duttile, che sapesse assumere diverse tonalità. Così quando nel ’37 il burattinaio giunse a Biandronno, con baracca e burattini, il suo Testafina ebbe un posto d’onore e in un batter d’occhio fu conosciuto in tutta la zona.
Avrete finalmente capito chi è il burattinaio? No? Ma è il nostro Berto Niemen!
Federica Lucchini
(Tratto da “La Gazzetta di Biandronno”, n. 2, 1999)
Èstato il primo attore durante la serata di presentazione del volume che lo vedeva protagonista nella Sala Convegni della Provincia, alla presenza dell’assessore alla cultura Cristina Scolari, del sindaco di Biandronno, Augusto Vanetti, del curatore del testo Pietro Porta, di Gianpaolo Bovone dell’associazione Peppino Sarina di Tortona. Non poteva essere altrimenti, se si considera che la sua vita è un tutt’uno con il teatro dei burattini e che, come ha scritto Guido Ceronetti, la sua condizione è paragonabile all’“inverno estremo, senza ghiacci, di un’esistenza che perfino Sofocle ammetterebbe felice Il sogno lo ha protetto con ali angeliche, e il mondo esterno lo sfiora appena, non può varcare la soglia ben difesa dai suoi legnosi fantasmi”. Lo sa bene chi frequenta la casa di Gualberto Niemen, che ha il sapore di un laboratorio dove tutto è predisposto per dare il via a quell’atto di fervida fantasia che è la creazione di un burattino. Dalle sgorbie, ai pennelli, ai colori. È, quindi, con grande piacere e avidità che si comincia a sfogliare il volume “Autobiografia di un burattinaio”, la sua autobiografia, voluta dai “quaderni dell’associazione Peppino Sarina, monografie”, e alla quale hanno contribuito in molti: dalla Provincia di Varese, a quella di Alessandria, a quella di Vercelli, al Comune di Biandronno, al centro per lo studio e la documentazione delle SOMS delle Province d’Alessandria e d’Asti, mentre il patronato è stato dato dalla Fondazione Archivio Diaristico Nazionale, da “Il Cantastorie”, rivista di tradizioni popolari a cura dell’Associazione “il Treppo”, e dall’Università
dei Burattini. Già la foto di copertina è emblematica nel cogliere un momento abituale della vita del Niemen.Chino su un foglio di carta dove ha appena tracciato le righe per “andare dritto”, – la precisione e la minuziosità sono una peculiarità della sua vita – scrive con una grafia chiara, bella, le sue memorie. Ogni espressione è meditata, mai corretta. È un rito che richiede silenzio, la mano chiusa sul foglio, mentre le parole sono come magici segni per imprimere i pezzi del mosaico prezioso di un’esistenza pregna di tanta vitalità e di uno scenario antico quanto la Commedia dell’ Arte. Escono dalla penna lente, pensate, e lui le guarda soddisfatto, a loro grato di avere reso appieno sulla carta i suoi ricordi. Inesauribili, palpitanti, colorati. “Papa Giovanni, cosa mangeremo in questi giorni noi che non lavoriamo per le tue onoranze al cordoglio?”, si chiese nel ’63 a Ternate, subito dopo la notizia del decesso del pontefice, che significava per lui un periodo di inattività. “Ma immediatamente – come scrive il Porta – il Santo Padre, dopo la suspence, gli fa trovare una bella lepre stecchita sul cofano dell’auto. Cose, fatti, persone, animali diventano motivo di una narrazione che nelle figure del teatro animato trovano ineccepibili referenti. Gianduja e Testafina, le maschere privilegiate di Niemen (le principali altre sono Brighella, Tartaglia, Capitan Bobò e Battista), svolgono non di rado una funzione di protagonisti a tutti gli effetti, chiamati in causa, fuori di scena, direttamente dal narratore. Sono poche ma assai decisive, ad esempio, le volte in cui Gualberto, reso disperato da ristrettezze economiche o da congiunture familiari, chiede direttamente soccorso all’amato Gianduja; e la maschera, coinvolta nel gioco di finzione, si adegua e fa la sua parte: “Mi sun bituvà a nen mangè, ma ti ch’et mangi pensa ti cosa chet poli fé par ciapé n’poch at sol per mangè…” (“Io sono abituato a non mangiare, ma tu che mangi pensa a ciò che puoi fare per guadagnare qualche soldo per mangiare”). Quando termina di scrivere, Gualberto ti guarda con un candore disarmante, poi ti fissa direttamente negli occhi per capire se tu sei partecipe delle sue esperienze. Sa che sono esperienze di un mondo che non è più, come quando racconta che negli anni ’30 ha dovuto raggiungere Casale Monferrato in bicicletta, sulla neve, con i legni che formavano il suo teatro sulle spalle. In perfetto equilibrio per chilometri e chilometri, se si considera che era partito dai nostri paesi. Il tutto gli era costato un rimprovero del Podestà per un’ora di ritardo, subito, però ricompensata con gli scroscianti applausi del pubblico dopo la rappresentazione. Grande merito a Porta che ha curato questa autobiografia. Da abituale frequentatore di casa Niemen, conosce le più recondite sfumature del burattino e della sua arte e solo uno come lui poteva dar origine a questo testo godibile, sapiente, umano. Un pezzo di storia del teatro dei burattini, con tutte le connotazioni dei secoli passati.
Federica Lucchini
(Tratto da “La Gazzetta di Biandronno”, n. 1, 2001)
STORIA DI UN BURATTINO
C’era una volta un pezzo di legno. Non era un legno di lusso, ma un semplice pezzo di catasta, di quelli che in inverno si mettono nelle stufe e nei caminetti per accendere il fuoco e riscaldare le stanze. Non so come andasse, ma il fatto gli è che un bel giorno questo pezzo di legno capitò nella bottega di un vecchio falegname, il quale aveva nome mastr’Antonio, se non che tutti lo chiamavano mastro Ciliegia, per via della punta del suo naso, che era sempre lustra e paonazza, come una ciliegia matura.
L’incipit de Le avventure di Pinocchio, con la sua freschezza e la sua poesia, può dare lo spunto per far scaturire una storia tutta biandronnese, che avrebbe gli ingredienti per interessarci e renderci orgogliosi. Potrebbe cominciare così: C’era una volta (o meglio, la data potrebbe essere il 1921)
un pezzo di legno di cirmolo. Uno di quei bei pezzi di legno che sembrano invitare ad essere lavorati. Era posto sopra un tavolo di un burattinaio sedicenne che, nato da una famiglia circense, aveva lo spettacolo nel sangue e guardava estasiato lo zio Cesare Costa manovrare con grande abilità le marionette e i burattini. Aveva una gran voglia di crearsene uno tutto suo, che fosse di buon carattere, ottimista e che sapesse prendere con filosofia la vita. Insomma, come era lui, o meglio, un suo alter ego. Così a grandi colpi cominciò a squadrarlo con la scure; terminata questa operazione, lo inserì nella morsa dove con una mazzetta di legno picchiò un po’ sugli scalpelli e un po’ sulle sgorbie da intagliatori. Ora tutto era pronto per iniziare a scolpire la fronte. Doveva essere abbastanza alta, liscia, perché una persona serena non può avere la fronte corrugata. Poi era la volta di evidenziare il naso ampio, con piccole narici, una bocca con una dentatura forte, aperta ad un sorriso solare. E gli occhi? Grandi, che sprizzassero gioia. Il bello è che a mano a mano procedeva il lavoro, il burattino, a differenza di Pinocchio, non diceva “Ohi! tu m’hai fatto male!”, ma sorrideva felice di venire al mondo, grato al suo inventore del dono della vita. Quando poi fu terminato, il giovane burattinaio dedicò grande cura nella stesura dei colori: vivaci, luminosi che sapessero trasmettere l’armonia, la serenità, l’arguzia del suo burattino. Fu grande feeling tra i due, quasi complementari; quindi ci voleva un nome che desse l’idea della natura del personaggio. Il burattinaio ci mise un po’ di tempo. Pensa e ripensa finalmente una notte ebbe un’illuminazione: Testafina, un nome sottile e nello stesso tempo arguto. E il burattino contento cominciò a dire, avvicinandosi a quello che sarebbe divenuto il socio di una vita, cioè Gianduja: “Oh, come sono contento, sono proprio contento! Se ti arrabbi fa più male!”. Il burattinaio guardava felice la sua creatura, era proprio quello che voleva egli fosse. E a differenza di Collodi che, una volta inventata la sua creatura spesso la dimenticava, lasciando le puntate delle sue avventure interrotte, il nostro burattinaio si dava da fare per far conoscere il suo Testafina, vestito con una giacca verde, una camicia e un papillon. E si dava da fare anche perché la sua voce fosse gradevole, duttile, che sapesse assumere diverse tonalità. Così quando nel ’37 il burattinaio giunse a Biandronno, con baracca e burattini, il suo Testafina ebbe un posto d’onore e in un batter d’occhio fu conosciuto in tutta la zona.
Avrete finalmente capito chi è il burattinaio? No? Ma è il nostro Berto Niemen!
Federica Lucchini
(Tratto da “La Gazzetta di Biandronno”, n. 2, 1999)
giuseppe cozzi
Di sicuro ci sarà sempre chi guarderà solo alla tecnica e si chiederà 'come', mentre altri di natura più curiosa si chiederanno 'perche'
Man Ray
Di sicuro ci sarà sempre chi guarderà solo alla tecnica e si chiederà 'come', mentre altri di natura più curiosa si chiederanno 'perche'
Man Ray
Re: Gualberto Niemen ed i suoi burattini..... una bella storia
IL DONO DI NONNO BERTOUn prolungato applauso ha accolto la decisione
del papà di tante creature di legno
“La mia casa per i burattini, le creature che mi accompagnano da una vita”. Un atto d’amore nei confronti di quei pezzi di legno che hanno un’anima, che vivono grazie a lui, che in questi locali sono stati modellati, dipinti ed hanno cominciato a parlare con la voce del loro papà. Sì, in quella casa di via IV novembre a Biandronno che ha il sapore di una fucina, dove anche ogni strumento da lavoro sembra trasmettere la vitalità con cui è stato usato e dove l’atmosfera è pregna di quella creatività che ha fatto scaturire tanti personaggi. Il proprietario di questa casa, moderno Geppetto, ha dunque ritenuto che devono continuare a vivere nell’ambiente in cui sono nati. Da qui la decisione di lasciare la sua abitazione al Comune perché allestisca il museo permanente per i suoi burattini; decisione accolta con un applauso dal consiglio comunale e approvata in piedi con la mano alzata, durante la seduta del 26 febbraio. Un riconoscimento dovuto a Gualberto Niemen, il nostro burattinaio novantacinquenne. È stato, quindi, un momento di grande emozione quello vissuto dopo la lettura del documento di donazione da parte del sindaco Augusto Vanetti. Con l’edificio, nonno Berto ha deciso che verranno donate anche tutte le altre opere da lui realizzate, da aggiungersi al fondo Niemen, già di proprietà del Comune, costituito da una quarantina di burattini, scenari, quadri, copioni. “Un gesto di gratitudine ha sottolineato il sindaco – nei confronti del paese in cui risiede dal ’37”. Una visita a casa di Niemen dà l’occasione di ammirare quanto da lui creato in questi ultimi anni, fra cui altri burattini. Ha del sacro quel movimento che compie ogni volta che ne prende uno. Lo afferra con quella tenerezza e quella complicità che si provano nei confronti dei congiunti più cari. Li guarda fiero della loro presenza e comincia con la sua abituale maestria a farli parlare. È felice e orgoglioso ed è palpabile il loro rapporto di empatia e di reciproca comprensione. Molto interessanti sono anche i copioni, rappresentati da altre compagnie teatrali e il materiale che lo ha seguito in tutto il suo percorso artistico, come, ad esempio, i manifesti pubblicitari. Un considerevole patrimonio, fondamentale per la ricostruzione della sua attività, testimonianza di un teatro che ha salde radici nella Commedia dell’Arte. Dunque, tutto questo materiale avrà una sua degna collocazione nel luogo dove è stato creato. “Comunque – si legge nel documento – qualora l’immobile venisse alienato o affittato, il ricavato dovrà essere usato esclusivamente per la realizzazione del museo”. Il Comune dovrà, nel caso in cui Niemen venisse ospitato presso un istituto per anziani, corrispondere una somma necessaria ad integrare la retta. Una nota molto commovente dà la misura di quanto nonno Berto sia legato alle sue creature: “Il sottoscritto obbliga il sindaco, in carica al momento del decesso, a collocare nella bara i burattini Gianduja e Testafina, compagni di una vita”. Soddisfazione e riconoscenza è stata espressa da tutto il consiglio comunale. Il consigliere di minoranza, Graziella Broggini, ha espresso voto contrario, sottolineando come la donazione, senza condizioni, sarebbe stata opportuna dopo il decesso del Niemen. Quindi, su suggerimento del consigliere Savino Matarrese, tutti in piedi, applaudendo l’artista e l’uomo, creatore di un mondo fatto di pulizia morale, di trionfo del bene; un mondo che può sembrare irreale, ma di cui l’umanità oggi ha un gran bisogno. C’è una frase che sintetizza la sua filosofia di vita: “Ho imparato che più si vede cose belle si cerca poi di scartare il brutto e amare sempre più il bello”.
Federica Lucchini
(Tratto da “La Gazzetta di Biandronno”, n. 1, 2001)
del papà di tante creature di legno
“La mia casa per i burattini, le creature che mi accompagnano da una vita”. Un atto d’amore nei confronti di quei pezzi di legno che hanno un’anima, che vivono grazie a lui, che in questi locali sono stati modellati, dipinti ed hanno cominciato a parlare con la voce del loro papà. Sì, in quella casa di via IV novembre a Biandronno che ha il sapore di una fucina, dove anche ogni strumento da lavoro sembra trasmettere la vitalità con cui è stato usato e dove l’atmosfera è pregna di quella creatività che ha fatto scaturire tanti personaggi. Il proprietario di questa casa, moderno Geppetto, ha dunque ritenuto che devono continuare a vivere nell’ambiente in cui sono nati. Da qui la decisione di lasciare la sua abitazione al Comune perché allestisca il museo permanente per i suoi burattini; decisione accolta con un applauso dal consiglio comunale e approvata in piedi con la mano alzata, durante la seduta del 26 febbraio. Un riconoscimento dovuto a Gualberto Niemen, il nostro burattinaio novantacinquenne. È stato, quindi, un momento di grande emozione quello vissuto dopo la lettura del documento di donazione da parte del sindaco Augusto Vanetti. Con l’edificio, nonno Berto ha deciso che verranno donate anche tutte le altre opere da lui realizzate, da aggiungersi al fondo Niemen, già di proprietà del Comune, costituito da una quarantina di burattini, scenari, quadri, copioni. “Un gesto di gratitudine ha sottolineato il sindaco – nei confronti del paese in cui risiede dal ’37”. Una visita a casa di Niemen dà l’occasione di ammirare quanto da lui creato in questi ultimi anni, fra cui altri burattini. Ha del sacro quel movimento che compie ogni volta che ne prende uno. Lo afferra con quella tenerezza e quella complicità che si provano nei confronti dei congiunti più cari. Li guarda fiero della loro presenza e comincia con la sua abituale maestria a farli parlare. È felice e orgoglioso ed è palpabile il loro rapporto di empatia e di reciproca comprensione. Molto interessanti sono anche i copioni, rappresentati da altre compagnie teatrali e il materiale che lo ha seguito in tutto il suo percorso artistico, come, ad esempio, i manifesti pubblicitari. Un considerevole patrimonio, fondamentale per la ricostruzione della sua attività, testimonianza di un teatro che ha salde radici nella Commedia dell’Arte. Dunque, tutto questo materiale avrà una sua degna collocazione nel luogo dove è stato creato. “Comunque – si legge nel documento – qualora l’immobile venisse alienato o affittato, il ricavato dovrà essere usato esclusivamente per la realizzazione del museo”. Il Comune dovrà, nel caso in cui Niemen venisse ospitato presso un istituto per anziani, corrispondere una somma necessaria ad integrare la retta. Una nota molto commovente dà la misura di quanto nonno Berto sia legato alle sue creature: “Il sottoscritto obbliga il sindaco, in carica al momento del decesso, a collocare nella bara i burattini Gianduja e Testafina, compagni di una vita”. Soddisfazione e riconoscenza è stata espressa da tutto il consiglio comunale. Il consigliere di minoranza, Graziella Broggini, ha espresso voto contrario, sottolineando come la donazione, senza condizioni, sarebbe stata opportuna dopo il decesso del Niemen. Quindi, su suggerimento del consigliere Savino Matarrese, tutti in piedi, applaudendo l’artista e l’uomo, creatore di un mondo fatto di pulizia morale, di trionfo del bene; un mondo che può sembrare irreale, ma di cui l’umanità oggi ha un gran bisogno. C’è una frase che sintetizza la sua filosofia di vita: “Ho imparato che più si vede cose belle si cerca poi di scartare il brutto e amare sempre più il bello”.
Federica Lucchini
(Tratto da “La Gazzetta di Biandronno”, n. 1, 2001)
giuseppe cozzi
Di sicuro ci sarà sempre chi guarderà solo alla tecnica e si chiederà 'come', mentre altri di natura più curiosa si chiederanno 'perche'
Man Ray
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Re: Gualberto Niemen ed i suoi burattini..... una bella storia
Grazie per il contributo....
Ti criticheranno sempre, parleranno male di te e sarà difficile che incontri qualcuno al quale tu possa andare bene come sei. Vivi come credi. Fai cosa ti dice il cuore…ciò che vuoi…. una vita è un’opera di teatro che non ha prove iniziali. Canta, ridi, balla, ama….e vivi intensamente ogni momento della tua vita…. Prima che cali il sipario e l’opera finisca senza applausi. (Charlie Chaplin)